È la notte del giorno dopo Santo Stefano. Siamo a Minsterworth, Gloucestershire. Qui, dove le caratteristiche case di campagna sono illuminate dagli addobbi natalizi e un sottile velo di neve ghiacciata copre le campagne antistanti, lungo una statale, c'è uno squallido albergo di provincia. Si ferma solo gente di passaggio, una notte e poi via. Dietro i vetri appanati di una finestra di quello squallido albergo di provincia s'è accesa una luce. Dentro una di quelle stanze una mano incerta cerca la scatola di fiammiferi sul comodino. Una sigaretta pende dalla bocca storta. La lingua gonfia è impastata dall'alcol. Trema quella mano. Trema mentre cerca di accendere un maledetto fiammifero. Ne spezza uno. Un altro non si accende. Lo getta a terra.
"Fanculo."
Trema anche la voce.
Finalmente riesce ad accendere un maledetto fiammifero. Per qualche secondo l'esile fiammella illumina un poco di più quella squallida stanza di quello squallido albergo di provincia. La sua ombra china dal letto si proietta sino al muro coperto da una carta da parati di discutibile gusto. Finalmente un tiro di sigaretta a pieni polmoni. Ne segue un colpo di tosse secca.
Il portiere, quel giovane e rachitico segaiolo, s'era raccomandato di non fumare all'interno della stanza.
"Mi raccomando signore, è per la moquette e la carta da parati."
"Fanculo te e la tua cazzo di carta da parati, piccolo figlietto di puttana. Dammi le chiavi."
"Ecco signore"
"Davvero non mi conosci?"
"No signore. Mai visto prima signore. Desolato signore."
"Meglio così."
Una nuvola di fumo ha ormai invaso la stanza. Ci passa attraverso, Paul, gli ricorda quei fumogeni nei derby infuocati di Roma. O le nebbie di Glasgow, quando entrava al pub per asciugarsi le ossa dopo un allenamento in mezzo al freddo e alla tristezza. In quei momenti sì che rimpiangeva Roma. Roma e il suo clima. Roma e la sua bellezza. Roma e i suoi eccessi.
Se ne sta in piedi in mezzo alla stanza, tra il letto e l'armadio con le ante aperte e lo specchio fissato a una di esse, la vestaglia di flanella slacciata gli copre solo la schiena, le spalle e le braccia. Evita di guardarsi allo specchio, Paul: si odia; calvo, flaccido, i tatuaggi deformati dalla pelle cadente, le occhiaie, le guance scavate e gli occhi crepati, spenti, opachi. Ha quarant'anni ma ne dimostra sessanta. È lontano da un pesoforma che non è riuscito a raggiungere nemmeno all'apice della sua carriera.
Pochi passi incerti dal letto al frigobar per prendere per il collo un'altra cazzo di bottiglia. E attaccarsi a quella come ai rimpianti.
Ripassa davanti allo specchio. Si lascia cadere sul letto. Fa di tutto per evitare d'incrociare lo sguardo con quel disperato. Ma non possono ignorarsi in eterno. Si riconosce, Paul, è lui quel disperato.
"Vaffanculo! Vaffanculo, cazzo!"
Sbraita mentre lancia una scarpa contro quello specchio del cazzo.
"Provaci tu, provaci tu a saltarci fuori.
Provaci tu a dimenticare le parole di tuo figlio!"
Anche il piccolo Regan lo sa. Lo sa che è un cazzo di ubriacone fallito. Ha paura di lui il piccolo Regan. Non vuole che torni a casa.
Forse ha solo paura per te, Paul.
Non è più un calciatore da un pezzo, Paul, quel tempo è passato e lo sa anche lui. Ma non è tardi per provare a essere di nuovo un padre. Non è tardi per tornare a essere di nuovo un marito. Non è tardi per tornare a essere di nuovo un uomo.
Un uomo nuovo.
No, non è tardi.
E mentre lo pensa si scola tutta la bottiglia, Paul. S'addormenta di traverso sul letto, la bottiglia vuota gli scivola dalla mano e cade sulla moquette senza fare rumore. Non sogna, Paul. Dorme e russa e sbuffa. Solo questo. Dorme finché il freddo e le prime luci dell'alba lo svegliano. La bottiglia è ancora per terra.
"Un uomo nuovo."
Prende il telefono, Paul. Fa lo zero e poi compone l'unico numero che si ricorda.
"Sono io. Voglio tornare a casa."