Wednesday, July 20, 2016

N.8

È la notte del giorno dopo Santo Stefano. Siamo a Minsterworth, Gloucestershire. Qui, dove le caratteristiche case di campagna sono illuminate dagli addobbi natalizi e un sottile velo di neve ghiacciata copre le campagne antistanti, lungo una statale, c'è uno squallido albergo di provincia. Si ferma solo gente di passaggio, una notte e poi via. Dietro i vetri appanati di una finestra di quello squallido albergo di provincia s'è accesa una luce. Dentro una di quelle stanze una mano incerta cerca la scatola di fiammiferi sul comodino. Una sigaretta pende dalla bocca storta. La lingua gonfia è impastata dall'alcol. Trema quella mano. Trema mentre cerca di accendere un maledetto fiammifero. Ne spezza uno. Un altro non si accende. Lo getta a terra.
"Fanculo."
Trema anche la voce.
Finalmente riesce ad accendere un maledetto fiammifero. Per qualche secondo l'esile fiammella illumina un poco di più quella squallida stanza di quello squallido albergo di provincia. La sua ombra china dal letto si proietta sino al muro coperto da una carta da parati di discutibile gusto. Finalmente un tiro di sigaretta a pieni polmoni. Ne segue un colpo di tosse secca. 
Il portiere, quel giovane e rachitico segaiolo, s'era raccomandato di non fumare all'interno della stanza.
"Mi raccomando signore, è per la moquette e la carta da parati."
"Fanculo te e la tua cazzo di carta da parati, piccolo figlietto di puttana. Dammi le chiavi."
"Ecco signore"
"Davvero non mi conosci?"
"No signore. Mai visto prima signore. Desolato signore."
"Meglio così."
Una nuvola di fumo ha ormai invaso la stanza. Ci passa attraverso, Paul, gli ricorda quei fumogeni nei derby infuocati di Roma. O le nebbie di Glasgow, quando entrava al pub per asciugarsi le ossa dopo un allenamento in mezzo al freddo e alla tristezza. In quei momenti sì che rimpiangeva Roma. Roma e il suo clima. Roma e la sua bellezza. Roma e i suoi eccessi.
Se ne sta in piedi in mezzo alla stanza, tra il letto e l'armadio con le ante aperte e lo specchio fissato a una di esse, la vestaglia di flanella slacciata gli copre solo la schiena, le spalle e le braccia. Evita di guardarsi allo specchio, Paul: si odia; calvo, flaccido, i tatuaggi deformati dalla pelle cadente, le occhiaie, le guance scavate e gli occhi crepati, spenti, opachi. Ha quarant'anni ma ne dimostra sessanta. È lontano da un pesoforma che non è riuscito a raggiungere nemmeno all'apice della sua carriera.
Pochi passi incerti dal letto al frigobar per prendere per il collo un'altra cazzo di bottiglia. E attaccarsi a quella come ai rimpianti.
Ripassa davanti allo specchio. Si lascia cadere sul letto. Fa di tutto per evitare d'incrociare lo sguardo con quel disperato. Ma non possono ignorarsi in eterno. Si riconosce, Paul, è lui quel disperato.
"Vaffanculo! Vaffanculo, cazzo!"
Sbraita mentre lancia una scarpa contro quello specchio del cazzo.
"Provaci tu, provaci tu a saltarci fuori.
Provaci tu a dimenticare le parole di tuo figlio!"
Anche il piccolo Regan lo sa. Lo sa che è un cazzo di ubriacone fallito. Ha paura di lui il piccolo Regan. Non vuole che torni a casa.
Forse ha solo paura per te, Paul.
Non è più un calciatore da un pezzo, Paul, quel tempo è passato e lo sa anche lui. Ma non è tardi per provare a essere di nuovo un padre. Non è tardi per tornare a essere di nuovo un marito. Non è tardi per tornare a essere di nuovo un uomo.
Un uomo nuovo.
No, non è tardi.
E mentre lo pensa si scola tutta la bottiglia, Paul. S'addormenta di traverso sul letto, la bottiglia vuota gli scivola dalla mano e cade sulla moquette senza fare rumore. Non sogna, Paul. Dorme e russa e sbuffa. Solo questo. Dorme finché il freddo e le prime luci dell'alba lo svegliano. La bottiglia è ancora per terra.
"Un uomo nuovo."
Prende il telefono, Paul. Fa lo zero e poi compone l'unico numero che si ricorda.
"Sono io. Voglio tornare a casa."

Thursday, October 22, 2015

Maledetto Johan!

Fa ancora molto freddo la mattina a Oostzaan, nelle pianure dell'Olanda Settentrionale. Il sole primaverile è quasi sorto ma nuvole cariche di pioggia portate dai venti provenienti dal mare oscurano in parte quella fresca alba. Siamo a pochi chilometri da Amsterdam, vicino al Markermeer, lì i mulini a vento pompano ancora acqua dai terreni per immetterla nei canali e nei fiumi al di là delle dighe, rendendo le campagne fertili. Coltivano soprattutto fiori e talenti da esportare.
Una stradina ghiaiosa porta a una casetta ricoperta di edera con lo steccato di legno bianco, riverniciato da poco, i tulipani stanno sbocciando in giardino.
Rob è ancora a letto con sua moglie. Dorme, ma è un sonno tormentato. Si agita e si contorce tra le coperte. Il solito incubo che torna, di tanto in tanto, da quasi quarant'anni. È tutto così nitido: l'odore dell'erba, le urla dell'allenatore, i cani poliziotto che abbaiano, la folla sulle tribune, la fatica nelle gambe. Quel fallo poco prima del cerchio di centrocampo, Krol non perde tempo, il novantesimo è appena scoccato, si va a prendere la palla e batte lunghissimo in mezzo all'area. Rob ha l'intuizione giusta, si butta in mezzo, brucia ancora una volta quel fabbro di Olguin e anticipa Fillol. Il Monumental trattiene il respiro. Silenzio. È un istante che sembra non finire mai. Le immagini sfocano tutte intorno alla palla che carambola sul palo come risucchiata da un vortice. Con un sussulto Rob si sveglia. Apre gli occhi nella penombra, le pulsazioni a mille, la fronte madida di sudore, le pillole per l'ansia sul comodino, vicino alla bottiglia d'acqua e alla radiosveglia. Ne butta giù un paio tracannando l'acqua direttamente dal collo della bottiglia. Al suo fianco non ci sono più Rep o Neeskens ma sua moglie, addormentata. Non indossa più la casacca arancione col 12 sulle spalle, ma un pigiama a righe bianco-malva, come il suo Anderlecht. Anche il Monumental è sparito. Di quell'attimo è rimasto solo il silenzio.
È contento Rob che sua moglie sia lì, accanto a lui, la guarda con tenerezza ancora, gli anni passano anche per lei, le rughe segnano le guance che sorridono anche quando dorme. Le accarezza i capelli ormai più bianchi che biondi. A lei non importava più da anni di quel che successe a Buenos Aires quel 25 giugno. Probabilmente non le importò mai nulla di quella partita. A lei importava solo che non si facesse male, che si divertisse e che fosse felice. Lei gli è sempre stata accanto, al contrario di Johan. "Johan, maledetto traditore - borbotta Rob con la voce spezzata dal sonno e dall'ansia - se solo avessi avuto le palle di venire. E poi ero io il talento timido".
Infatti Rob era quello bravo sì, dicevano, ma senza carattere. Silenzioso al punto giusto da divenire la spalla ideale di Johan. Johan, quello che parlava e parlava. Johan quello che piaceva a ragazze, bambini, tifosi e giornalisti. Ma Johan era anche quello che giocava, eccome se giocava. E vinceva. Eppure rinunciò alla convocazione, paura per la propria incolumità, spiegò.
Rob non riesce a calmarsi, ma dovrebbe, la salute non è più quella di un tempo. Stringe le coperte nei pugni. Si alza dal letto, infila le pantofole e una vestaglia ed esce in giardino. La città è lontana ma non troppo, il mondo del calcio sì invece. "Per colpa tua mi son dovuto caricare una nazione intera sulle spalle - urla al vento - maledetto Johan!". Si alza uno stormo di anatre. La luce nella stanza si accende, sua moglie corre fuori, preoccupata. I capelli spettinati, gli occhi gonfi. "Ancora quell'incubo?" Rob annuisce senza dire nulla. Lei lo abbraccia e lo riaccompagna in casa, gli prepara una tisana allo zenzero e miele, la sua preferita. Rob non smette di ricordare: arrivò a un passo, anzi a pochi centimentri dalla gloria. Quella eterna. Quella che si prese Johan. Non si dà pace, Rob, perché lui, per l'ingrata Olanda, continuerà a prendere quel maledetto palo per tutta la vita.

Thursday, October 08, 2015

Trancerie Mossina


15 novembre 1942. L’autunno volgeva al termine, ormai le gelate mattutine erano sempre più intense. Un venticello gelido spazzava via le foglie morte ammucchiate negli angoli del viale alberato che conduceva al “Calcaterra”.
Il Calcaterra era il nuovo stadio del paese, fu costruito circa una decina d’anni prima dal partito fascista in onore di un camerata locale andato a far la guerra in Grecia, partito dentro una camicia nera se ne tornò dentro quattro assi di legno. Lo stadio era circondato da mura alte quasi tre metri, interrotte solo dai cancelli d’accesso, ed era dotato di ampie tribune di legno. Un impianto moderno e polifunzionale, come voleva il partito, a dispetto del vecchio campo da gioco ricavato in uno spiazzo adiacente al baluardo delle Caserme, dove da naturale tribuna suppliva l’argine maestro che proteggeva la città dalle abituali piene del Po, mentre ora, proprio tra quell’argine e l’ex convento delle cappuccine, sorgevano, nel segno del Duce, le scuole dalla pianta a forma di M.
Pierino alla scuola aveva sempre preferito il pallone così, un po’ per scelta, un po’ per necessità smise di studiare e andò a lavorare in una bottega sotto i portici. Il resto del tempo lo passava a giocare in Piasöla con gli amici, sgambettando tra aiuole rinsecchite, randagi pelle e ossa e bastoni di vecchietti permalosi. Sognava di diventare calciatore, Perino, magari un’ala come il suo idolo, Brenno Milani, il numero sette locale, agile, veloce, elegante, capace di saltare le marcature dei terzini in tutti i modi e superare i portieri indifferentemente con tocchi morbidi o violenti bolidi.
Gli vollero diverse settimane per risparmiare i soldi del biglietto ma quel derby, Pierino, proprio non aveva nessuna intenzione di perderselo. La data della partita in casa contro la Reggiana era cerchiata in rosso sul calendario della bottega da quando il Solco Fascista aveva pubblicato i calendari dei gironi. Finalmente quel giorno era arrivato. Pierino si faceva largo tra quel fiume di gente che, chiassosa e, per una volta, festante, confluiva dal centro e dalla stazione dei treni a quel viale alberato che conduceva al Calcaterra. La folla era ormai accalcata ai cancelli d’ingresso, un paio di signori baffuti staccavano i biglietti e lasciavano entrare i tifosi che andavano a riempire disordinatamente tutti gli spazi delle tribune. Pierino, magro come chiodo, riuscì facilmente a incunearsi in quel marasma di gente per andarsi a prendere uno dei posti migliori, così da riuscire a guardare il più vicino possibile i propri idoli in calzoncini, più o meno gli stessi che avevano vinto due campionati in tre anni e adesso, dopo quattro vittorie e due sconfitte – peccato per la sconfitta di Imola, recriminava tra sé e sé Pierino – erano tributati da tutti come la grande sorpresa del girone emiliano di serie C. C’era il portiere Manfredini detto “Gomma”, coi guanti di pelle e il berretto di lana, c’erano i difensori Bonini e Bagni, solidi come rocce, la forte mezzala Carnevali, il mancino Bianchi sulla sinistra, il terzino Furattini, quella testa calda del centravanti Gino Manini e poi c’era lui, Brenno Milani, l’eroe di Pierino, l’ala destra dal gol facile.
Pierino continuava a guardarsi intorno, la bocca aperta e gli occhi persi tradivano un sentimento di meraviglia e stupore, non aveva mai visto lo stadio così affollato. Gli spalti erano gremiti da tremila persone, diranno le cronache, di cui circa milleduecento sostenitori granata da tutta la provincia e, in un angolo, un nutrito gruppo di tifosi crociati, giunti dal Ducato per spiare gli odiati cugini, sperando in una loro sconfitta per aumentare così il distacco in classifica da una delle dirette inseguitrici.
Il Cavalier Mossina, stretto dentro al suo giaccone in feltro di lana, s’accese un sigaro e prese il suo posto in tribuna accompagnato dalla moglie e dal fedelissimo dirigente Orfeo Veronesi, il vero artefice, si diceva, di quel miracolo sportivo. Il cavaliere distribuiva sorrisi ed elargiva strette di  mano a dirigenti, borghesi e alte cariche politiche locali, vantandosi di essere stato il primo, in Italia, ad aver creato questo innovativo connubio tra sponsorizzazione e calcio, grazie alle sue trancerie, le Trancerie Mossina. Si sentiva anche un po’ un benefattore, il Mossina, in un Paese mortificato e avvilito da due guerre, una in Russia e l’altra in Africa, lui dava lavoro a circa quattrocento persone, tra le quali la madre di Pierino e tante altre donne rimaste senza marito a causa del conflitto.
Forse l’emozione dopo l’attesa, forse il freddo, ma un brivido percorse la schiena di Pierino quando le squadre scesero in campo per il riscaldamento. I calciatori, nelle loro divise di lana, dopo aver ammorbidito gli scarpini ungendoli nel grasso di cavallo e averli provati in una valigia piena di terra, tastavano quel campo fangoso e gelato, delimitato da quattro sgangherate righe di gesso indurito dall’umidità e dal freddo, e iniziavano ad assaggiare quel pallone di cuoio cucito a mano da qualche signora, fermandosi un paio di volte per gonfiarlo.
L’arbitro richiamò le squadre, prese il pallone e lo posizionò a centrocampo: il derby poteva finalmente cominciare.
Il primo tempo corse via equilibrato, contratto, duro, avaro di emozioni e senza nessuna squadra capace di produrre una marcatura. Nel secondo tempo il bomber granata Zecca punì due volte Manfredini dopo aver eluso le marcature di Bonini e Bagni, ma i giocatori di casa, mai domi, a pochi minuti dal termine trovarono la via del gol con lo splendido missile al volo di Milani (proprio lui, l’avevo detto! esultò Pierino agitando un pugno per aria) che accorciò le distanze. Purtroppo a nulla valse l’arrembante finale per raggiungere un meritato quanto insperato pareggio. Così, dopo un gran colpo di testa di Manini a far la barba al palo, arrivò il triplice fischio e il popolo granata poté esultare, la prima squadra della provincia era ancora la Reggiana. Il pubblico di casa applaudì comunque la prestazione dei loro undici, usciti a testa alta dal confronto con una realtà con ben altre disponibilità economiche.
Il Cavalier Mossina spense il sigaro, l’ultima nuvola di fumo nascose l’espressione delusa del suo viso. S’alzò, strinse le solite mani, distribuì i soliti sorrisi di circostanza complimentandosi con vinti e vincitori, confabulò qualcosa col fido Veronesi e poi, insieme alla moglie, se ne andò a casa.
Gli spettatori avevano ormai lasciato tutti il Calcaterra, Pierino rimase da solo sui gradoni lignei della tribuna, fissava il campo deserto e martoriato dalla competizione mentre il vento spazzava biglietti e fogli di giornale stropicciati e il cielo iniziava a imbrunire. Fu una grande delusione sportiva, solo la prima di una lunga serie, ma fu la scintilla che accese un amore che non si spense mai.

Thursday, April 16, 2015

I pub di Dublino.

Il cielo di Dublino è di un azzurro chiaro, tenue e timido come il sole che va a nascondersi dietro le nuvole grigie che sporcano l'orizzonte. Vanno e vengono portando qualche goccia di pioggia per poi essere di nuovo spazzate da un vento freddo, incessante e tenace. Quel vento che ti fa affondare il viso nella sciarpa e nel giaccone, e ti porta a pensare come cazzo avresti fatto senza cappuccio, con la cervicale che ti dà noia, mentre loro, gli irlandesi, se ne stanno in camicia e a testa alta.
Li riconosci subito, gli irlandesi, e non solo per gli stereotipati capelli rossi e fulgidi, o per la pelle chiara e lentigginosa, le guance paonazze per il vento e le pinte di birra. Ho incontrato persone gentili, cordiali, pacifiche. Ma avevano uno sguardo fiero, orgoglioso, anche da sbronzi. Orgogliosi della loro appartenenza a un popolo che ha passato secoli di sfighe e difficoltà, e in queste si sono riconosciuti e stretti e uniti per riuscire a saltarne fuori, sempre. Tra una birra e un whisky, ovviamente.
A lazy morning, direbbero loro. Alzarsi la mattina con calma. Ci infiliamo nel primo bar che ci ispira per fare colazione. La doppia porta d'ingresso, le vetrate, i tavoli e il balcone di legno massello, le poltrone. Gira un disco con le versioni accoustic di alcune hit pop degli ultimi anni. Si avvicina una ragazza, bionda, sui venticinque, guance butterate, fianchi larghi, vestito nero. Essenziale, semplice, gentile. Ordiniamo bacon, uova, salsicce, fette di pane tostato, sciroppo d'acero, the, succo d'arancia, caffè, giusto per non farci mancare niente. Non lasciamo neanche una briciola. A lei però, la nostra cameriera, lasciamo la mancia. Ci sorride mentre usciamo.
Continuiamo a piedi lungo le vie che costeggiano il Liffey River, il fiume che taglia in due la città. Arriviamo in un parco talmente grande che non ne vedo i confini. Uno scoiattolo con evidenti problemi di peso scorrazza per il prato, faccio in tempo ad avvicinarmi e a scattargli una foto prima che, con sorprendente agilità, torni a rintanarsi sulla cima di un albero. Poco più lontano un ragazzo se ne sta seduto sotto una pianta, un altro lo aiuta a tirarsi su la manica della camicia a quadri, arrotolandogliela bene fin sopra a gomito, stringendo il bicipite. In bocca, tra i denti stringe una siringa, la prende in mano con la sicurezza di chi ha ripetuto quel gesto centinaia di volte, gl'infila l'ago nella vena ingrossata e spinge lo stantuffo. Poco lontano dei ragazzi giocano a pallone, un vecchio porta a spasso il cane, una coppietta si tiene per mano mentre cammina e qualcun altro si rilassa sdraiato sul prato incredibilmente verde del Phoenix Park.
Alzo la mano per chiamare un taxi, si ferma un uomo di mezza età dai classici lineamenti irlandesi e con due grosse mani nodose. Parla un inglese con un accento a noi incomprensibile, ma anche lui è molto gentile e continua a parlarci e a sorriderci con quei quattro denti ingialliti che gli restano. Ci facciamo portare in centro mentre, fuori dal finestrino, Dublino ci scorre davanti agli occhi. Un palazzo moderno in vetro e acciaio da un lato della strada, dall'altro una file di case popolari, quelle caratteristiche alte e strette, coi mattoni rossi in vista. Una chiesetta medievale perfettamente conservata e circondata da un giardino verde mi lascia a bocca aperta appena girato l'angolo. Sullo sfondo la fabbrica della Guinness. Sfilano i palazzi del centro, eleganti ma essenziali, i supermercati, i bar, i fastfood, i negozi di antiquariato, i murales disegnati sulle serrande abbassate. Fine corsa. Paghiamo il vecchio, non vuole la mancia e nemmeno i 10 cents dei 7.10 euro che gli dobbiamo. Le macchine tengono la destra, "devo ricordarmi di fare attenzione ogni volta che attraverso la strada", penso mentre cammino sul marciapiede affollato. Incrocio un vecchio punk, si aiuta con una stampella mentre passeggia indossando il suo giubbino jeans con le maniche strappate, pieno di toppe e spille e l'immancabile scritta "anarchy" sulla schiena, con tanto di A cerchiata. Orgoglioso d'essere rimasto, almeno lui, fedele alla linea. Continuiamo a camminare ancora poco, perché non resistiamo alla tentazione di entrare in un pub, risparmiandoci pure la storiella dell'"ho male ai piedi, sono stanco di camminare".
Dublino ti fa venire voglia di sederti in un pub a berti una birra. Ma anche due, tre, cinque, dieci. Non importa. Perché, se fare un giro per le strade di una città che non conosci può aiutarti a capire qualcosa della sua storia, della sua cultura, delle sue abitudini, a Dublino questo vale anche per i pub. Entrare, sedersi, ordinare una pinta, guardarsi intorno, leggere le targhette commemorative alle pareti. Osservare i quadri e i poster, le facce delle persone, le persone stesse, i baristi e la spillatura delle birre. Accarezzare il legno del bancone, lo stesso in cui può essersi seduto Joice, o Wilde, o Shaw. Ascoltare la musica sempre adatta a ogni situazione e lasciarsi trasportare dall'entusiasmo dei live in acustico che vanno dal british pop al folk irlandese al rock. Ti fanno sentire bene, ti fanno sentire uno di loro. Mi hanno fatto sentire a casa. Brazen Head, il pub più antico della città (1660), il più famoso The Temple Bar che prende il nome dal quartiere Temple Bar, ritrovo di molti artisti di strada, e poi ancora The Norseman, The Badbobs, The Auld Dubliner, l'Oliver st. John Gogarty Pub, The Cobblestone... sono solo alcuni dei pub che abbiamo visitato e che sono riuscito a ricordare, capitemi. Lì respiri la storia, capisci la cultura.

I pub di Dublino sono come dei monumenti, sono il cuore e l'anima della città.

Saturday, September 20, 2014

Il sogno


Vecchio si svegliò nel buio della sua stanza. Aprì gli occhi all’improvviso come quando ci si sveglia da un incubo. Ma quello che fece non fu un incubo, o almeno non gli parve tale. E poi dagli incubi di solito ci si sveglia urlando, sudati e con il battito cardiaco accelerato. Niente di tutto ciò per lui, solo un paio di occhi spalancati nelle tenebre e il rumore delle auto che sfrecciavano lontane nella notte lungo la via Emilia. Portò le mani alle tempie, tastandole per assicurarsi che fosse tutto a posto e accese la luce. Prima ispezionò il cuscino, dopo si guardò intorno, sembrava tutto in ordine, sempre che di ordine si potesse parlare. Quindi si alzò da letto e andò in cucina per bere un bicchiere d’acqua fresca.
Era la terza notte di fila che gli succedeva. Svegliarsi così, all’improvviso, a causa di quello che per chiunque sarebbe stato un incubo ma che invece per lui sembrava essere solo un sogno. Un po' strano, forse, ma i sogni non sono mai banali.
Una stanza nella penombra, quattro mura prive di finestre, una porta chiusa alle spalle, solo una luce tenue cadeva dall’alto e illuminava un semplice tavolo, quattro gambe e un’asse di legno scuro. Al centro di questo tavolo una pistola. Non ricordava che tipo di pistola fosse. Ma lui ne era tanto attratto da non riuscire a resistere dall’afferrarla e portarsela alla tempia. La sentiva in mano, pesava due o tre chili. La stringeva. Le dita avvolte intorno al calcio. Riusciva persino a percepire tutti i meccanismi azionarsi fino all’esplosione del proiettile mentre premeva il grilletto. Lo premeva spinto solo da un sentimento di curiosità. Una curiosità morbosa e oscura: quella della morte e del morire. Ciò che si prova in quell’istante: il dolore, la paura, il trapasso, l’oblio.
Vecchio aprì il rubinetto, prese un bicchiere dal secchiaio, lo sciacquò, poi lo riempì d’acqua fresca e bevve. Ripose il bicchiere vuoto dove l’aveva trovato. Pensava ancora a quel sogno, ma tra tutte quelle stranezze lui continuava solo a chiedersi perché spararsi di sinistro. A lui, che non era affatto mancino, sembrava l'unica cosa strana. Andò in bagno, accese la luce e si mise davanti allo specchio. Si rinfrescò anche il viso. Pensò che se il vero lui fosse quel tizio che lo fissava dietro allo specchio, allora sì, impugnerebbe l’arma con la mano destra, quella giusta.
Accarezzò la fredda superficie riflettente e l'uomo dall'altra parte fece lo stesso. Poi si portò le dita della mano sinistra alla tempia mimando una pistola. Il tizio dentro lo specchio sorrise e tirò il grilletto.
Fu di nuovo buio.
Per l'ultima volta.

Saturday, July 19, 2014

Luce lunare

È arrivato il caldo. Stanotte. Dopo la pioggia, la luna, poi la pioggia più forte e poi ancora la luna. Grande, tonda, luminosa. Bella. Questo tempo ti assomiglia. Come quando indossi quegli occhi tristi senza mai smettere di sorridere.
Pensavo: mi mancano le parole. Perché sono rimaste lontane troppo tempo. Sentire i tasti scorrere e affondare e poi rimabalzare sotto le dita è una sensazione unica. E distensiva. Butto giù due righe senza capo né coda. Lascio che le mie estremità corrano senza meta lungo la tastiera per il solo piacere di farlo. Scrivo perché ho voglia. Scrivo perché ho troppa immaginazione e non riesco a viverla come vorrei, ma nemmeno riesco a scrivere come vorrei.
Guardo fuori dalla finestra: stanotte non piove, la luna si fa largo tra un paio di nuvole. Sgomita, come se dovesse prendere posto in prima fila. Ma a guardare che? Mi domando. Qui va in scena il solito spettacolo di sempre. Forse dà solo un'occhiata, è curiosa. Nulla più. O spera in un qualche colpo di scena. Forse ha bevuto anche lei, come noi in un weekend qualsiasi come questo, e così s'affaccia sul mondo: prende appunti a matita su un taccuino, annota quel che vede con quella grafia sinuosa e da figa - permettetemi di dire. La luna è lì che sbircia tra i campi, gli argini, i fossi e il fiume, e la sua luce filtra attraverso le nuvole e le frasche e le finestre andando a riflettere sulla fronte fredda e sudata di uno di quei figli di quest'angolo di mondo. Accucciato in un angolo. Solo. La luce lunare lo fa sembrare ancor più pallido. E mentre la luna lo illumina, la nebbia gli offusca il cervello e gli impedisce di pensare, ma forse è lui che s'impone di non farlo. Viviamo in un posto dove c'è tutto, ci raccontano. Ma in realtà non c'è niente. E proprio in quel niente cercano delle risposte gli animi più deboli e insicuri. O forse sono solo più curiosi e sensibili di altri. Vi si rifugiano in quella nebbia. Si fanno avvolgere in un abbraccio caldo e morbido, seppur effimero. Scelgono qualcosa che non sia la frenesia di una cazzo di vita che assomiglia sempre più a una campestre. Ma dove cazzo correte tutti? Che anche 'sta strada che ci obbligano a percorrere è tanto piena di buche quanto di piaceri sintetici, di plastica. Sogni di polietilene. Effimeri anch'essi. E allora dov'è la differenza?
Io non me la sento di giudicare chi si ferma, ai margini della strada, con la nebbia in testa, a guardare gli altri che corrono.
Lo faccia la luna.

Sunday, March 16, 2014

qdf, abbreviato

Non mi ricordo che anno fosse, il 2003 o il 2004 o forse addirittura il 2005. Tu lo ricordi?
Comunque era estate e come tutte le estati s'andava al mare tutti insieme. Quell'anno scegliemmo Gallipoli e il Salento. Una terra bellissima con un mare che non ha niente da invidiare ai Caraibi, alle Seychelles o ad altri paradisi terrestri. Ma poteva essere benissimo il Lido Adriano, Ladispoli o Capalbio, per dire, non è questo il punto.
Partimmo di notte. Partimmo con un Bedford, un furgone inglese ma d'immatricolazione italiana, nell'accezione più negativa del termine, ovviamente. Ce lo procurò il padre del Rebe, mentre tuo padre alla partenza ce la gufò alla grande: "ragazzi, tranquilli: questo è inglese, non si ferma mai!". Mai. Sì, certo. 
Partimmo di notte - dicevamo - col furgone, noi tre, uno stereo che gracchiava del gran metal, qualche birra e circa trenta lattine di redbull. Buttammo tutte le valigie dietro, nel vano. Gli altri ci seguivano in macchina. Anche se in realtà eravamo noi a seguire loro, ma non importa nemmeno questo.
Guidammo tutta la notte, trascinandoci per quei mille chilometri d'asfalto che ci separavano dal mare, dalle spiagge e dalle fighe ch'eravamo convinti di trovare. Ci concedemmo solo qualche breve pausa per i rifornimenti di gasolio e per pisciare.
Dopo quattordici ore di viaggio, con punte massime di ben 120km/h, arrivammo finalmente a Gallipoli. Incollati l'uno all'altro, con gli occhi stropicciati, con i culi quadrati, con uno stereo con l'abbassamento di voce, con qualche bottiglia vuota e con una trentina di lattine accartocciate tra i piedi.
In quel viaggio ci affezionammo talmente tanto al vecchio Bedford che finimmo per usarlo sempre. Lo usavamo per andare dappertutto: in spiaggia, a far la spesa, a fare un giro in centro, a cena e se avessimo potuto l'avremmo usato anche per andare a cagare. Noi tre. Quelli del furgone. Qdf, abbreviato, che diventerà poi un sito, e un'idea che non saremmo mai riusciti realizzare fino in fondo.
Una settimana dopo ripartimmo al tramonto, un ultimo, malinconico saluto al mare e alle spiagge. Tangenziale a Lecce. Rumore metallico. Fumata bianca. E tutti in piazzola con un radiatore eruttante sotto al culo. "Ragazzi, tranquilli: questo è inglese, non si ferma mai!". La grande gufata… Tre ore fermi in tangenziale a Lecce per rianimare il furgone. Poi altre diciotto ore di asfalto e autogrill, col sole d'agosto a picchiarci in testa per tutta la durata del viaggio di ritorno a casa. Solo un paio di giorni dopo il vecchio Bedford se ne tornò esausto a Firenze, dal padre del Rebe, a godersi la pensione.
Per me è come se da quel furgone tu non fossi mai sceso. Ché alla fine abbiamo ancora il culo su quel vecchio Bedford. Noi tre. Quelli del furgone. Qdf, abbreviato.

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