Il cielo
di Dublino è di un azzurro chiaro, tenue e timido come il sole che va a
nascondersi dietro le nuvole grigie che sporcano l'orizzonte. Vanno e vengono
portando qualche goccia di pioggia per poi essere di nuovo spazzate da un vento
freddo, incessante e tenace. Quel vento che ti fa affondare il viso nella
sciarpa e nel giaccone, e ti porta a pensare come cazzo avresti fatto senza
cappuccio, con la cervicale che ti dà noia, mentre loro, gli irlandesi, se ne
stanno in camicia e a testa alta.
Li
riconosci subito, gli irlandesi, e non solo per gli stereotipati capelli rossi
e fulgidi, o per la pelle chiara e lentigginosa, le guance paonazze per il
vento e le pinte di birra. Ho incontrato persone gentili, cordiali, pacifiche.
Ma avevano uno sguardo fiero, orgoglioso, anche da sbronzi. Orgogliosi della
loro appartenenza a un popolo che ha passato secoli di sfighe e difficoltà, e
in queste si sono riconosciuti e stretti e uniti per riuscire a saltarne fuori,
sempre. Tra una birra e un whisky, ovviamente.
A lazy
morning, direbbero loro. Alzarsi la mattina con calma. Ci infiliamo nel primo
bar che ci ispira per fare colazione. La doppia porta d'ingresso, le vetrate, i
tavoli e il balcone di legno massello, le poltrone. Gira un disco con le
versioni accoustic di alcune hit pop degli ultimi anni. Si avvicina una
ragazza, bionda, sui venticinque, guance butterate, fianchi larghi, vestito
nero. Essenziale, semplice, gentile. Ordiniamo bacon, uova, salsicce, fette di
pane tostato, sciroppo d'acero, the, succo d'arancia, caffè, giusto per non
farci mancare niente. Non lasciamo neanche una briciola. A lei però, la nostra
cameriera, lasciamo la mancia. Ci sorride mentre usciamo.
Continuiamo
a piedi lungo le vie che costeggiano il Liffey River, il fiume che taglia in
due la città. Arriviamo in un parco talmente grande che non ne vedo i confini.
Uno scoiattolo con evidenti problemi di peso scorrazza per il prato, faccio in
tempo ad avvicinarmi e a scattargli una foto prima che, con sorprendente
agilità, torni a rintanarsi sulla cima di un albero. Poco più lontano un
ragazzo se ne sta seduto sotto una pianta, un altro lo aiuta a tirarsi su la
manica della camicia a quadri, arrotolandogliela bene fin sopra a gomito,
stringendo il bicipite. In bocca, tra i denti stringe una siringa, la prende in
mano con la sicurezza di chi ha ripetuto quel gesto centinaia di volte,
gl'infila l'ago nella vena ingrossata e spinge lo stantuffo. Poco lontano dei
ragazzi giocano a pallone, un vecchio porta a spasso il cane, una coppietta si
tiene per mano mentre cammina e qualcun altro si rilassa sdraiato sul prato
incredibilmente verde del Phoenix Park.
Alzo la
mano per chiamare un taxi, si ferma un uomo di mezza età dai classici
lineamenti irlandesi e con due grosse mani nodose. Parla un inglese con un
accento a noi incomprensibile, ma anche lui è molto gentile e continua a
parlarci e a sorriderci con quei quattro denti ingialliti che gli restano. Ci
facciamo portare in centro mentre, fuori dal finestrino, Dublino ci scorre
davanti agli occhi. Un palazzo moderno in vetro e acciaio da un lato della
strada, dall'altro una file di case popolari, quelle caratteristiche alte e
strette, coi mattoni rossi in vista. Una chiesetta medievale perfettamente
conservata e circondata da un giardino verde mi lascia a bocca aperta appena
girato l'angolo. Sullo sfondo la fabbrica della Guinness. Sfilano i palazzi del
centro, eleganti ma essenziali, i supermercati, i bar, i fastfood, i negozi di
antiquariato, i murales disegnati sulle serrande abbassate. Fine corsa.
Paghiamo il vecchio, non vuole la mancia e nemmeno i 10 cents dei 7.10 euro che
gli dobbiamo. Le macchine tengono la destra, "devo ricordarmi di fare attenzione
ogni volta che attraverso la strada", penso mentre cammino sul marciapiede
affollato. Incrocio un vecchio punk, si aiuta con una stampella mentre
passeggia indossando il suo giubbino jeans con le maniche strappate, pieno di
toppe e spille e l'immancabile scritta "anarchy" sulla schiena, con tanto di A
cerchiata. Orgoglioso d'essere rimasto, almeno lui, fedele alla linea.
Continuiamo a camminare ancora poco, perché non resistiamo alla tentazione di
entrare in un pub, risparmiandoci pure la storiella dell'"ho male ai
piedi, sono stanco di camminare".
Dublino
ti fa venire voglia di sederti in un pub a berti una birra. Ma anche due, tre,
cinque, dieci. Non importa. Perché, se fare un giro per le strade di una città
che non conosci può aiutarti a capire qualcosa della sua storia, della sua
cultura, delle sue abitudini, a Dublino questo vale anche per i
pub. Entrare, sedersi, ordinare una pinta, guardarsi intorno, leggere le
targhette commemorative alle pareti. Osservare i quadri e i poster, le facce
delle persone, le persone stesse, i baristi e la spillatura delle birre.
Accarezzare il legno del bancone, lo stesso in cui può essersi seduto Joice, o
Wilde, o Shaw. Ascoltare la musica sempre adatta a ogni situazione e lasciarsi
trasportare dall'entusiasmo dei live in acustico che vanno dal british pop al
folk irlandese al rock. Ti fanno sentire bene, ti fanno sentire uno di
loro. Mi hanno fatto sentire a casa. Brazen Head, il pub più antico della città
(1660), il più famoso The Temple Bar che prende il nome dal quartiere Temple
Bar, ritrovo di molti artisti di strada, e poi ancora The Norseman, The
Badbobs, The Auld Dubliner, l'Oliver st. John Gogarty Pub, The Cobblestone...
sono solo alcuni dei pub che abbiamo visitato e che sono riuscito a
ricordare, capitemi. Lì respiri la storia, capisci la cultura.
I pub di
Dublino sono come dei monumenti, sono il cuore e l'anima della città.
No comments:
Post a Comment