Thursday, October 22, 2015

Maledetto Johan!

Fa ancora molto freddo la mattina a Oostzaan, nelle pianure dell'Olanda Settentrionale. Il sole primaverile è quasi sorto ma nuvole cariche di pioggia portate dai venti provenienti dal mare oscurano in parte quella fresca alba. Siamo a pochi chilometri da Amsterdam, vicino al Markermeer, lì i mulini a vento pompano ancora acqua dai terreni per immetterla nei canali e nei fiumi al di là delle dighe, rendendo le campagne fertili. Coltivano soprattutto fiori e talenti da esportare.
Una stradina ghiaiosa porta a una casetta ricoperta di edera con lo steccato di legno bianco, riverniciato da poco, i tulipani stanno sbocciando in giardino.
Rob è ancora a letto con sua moglie. Dorme, ma è un sonno tormentato. Si agita e si contorce tra le coperte. Il solito incubo che torna, di tanto in tanto, da quasi quarant'anni. È tutto così nitido: l'odore dell'erba, le urla dell'allenatore, i cani poliziotto che abbaiano, la folla sulle tribune, la fatica nelle gambe. Quel fallo poco prima del cerchio di centrocampo, Krol non perde tempo, il novantesimo è appena scoccato, si va a prendere la palla e batte lunghissimo in mezzo all'area. Rob ha l'intuizione giusta, si butta in mezzo, brucia ancora una volta quel fabbro di Olguin e anticipa Fillol. Il Monumental trattiene il respiro. Silenzio. È un istante che sembra non finire mai. Le immagini sfocano tutte intorno alla palla che carambola sul palo come risucchiata da un vortice. Con un sussulto Rob si sveglia. Apre gli occhi nella penombra, le pulsazioni a mille, la fronte madida di sudore, le pillole per l'ansia sul comodino, vicino alla bottiglia d'acqua e alla radiosveglia. Ne butta giù un paio tracannando l'acqua direttamente dal collo della bottiglia. Al suo fianco non ci sono più Rep o Neeskens ma sua moglie, addormentata. Non indossa più la casacca arancione col 12 sulle spalle, ma un pigiama a righe bianco-malva, come il suo Anderlecht. Anche il Monumental è sparito. Di quell'attimo è rimasto solo il silenzio.
È contento Rob che sua moglie sia lì, accanto a lui, la guarda con tenerezza ancora, gli anni passano anche per lei, le rughe segnano le guance che sorridono anche quando dorme. Le accarezza i capelli ormai più bianchi che biondi. A lei non importava più da anni di quel che successe a Buenos Aires quel 25 giugno. Probabilmente non le importò mai nulla di quella partita. A lei importava solo che non si facesse male, che si divertisse e che fosse felice. Lei gli è sempre stata accanto, al contrario di Johan. "Johan, maledetto traditore - borbotta Rob con la voce spezzata dal sonno e dall'ansia - se solo avessi avuto le palle di venire. E poi ero io il talento timido".
Infatti Rob era quello bravo sì, dicevano, ma senza carattere. Silenzioso al punto giusto da divenire la spalla ideale di Johan. Johan, quello che parlava e parlava. Johan quello che piaceva a ragazze, bambini, tifosi e giornalisti. Ma Johan era anche quello che giocava, eccome se giocava. E vinceva. Eppure rinunciò alla convocazione, paura per la propria incolumità, spiegò.
Rob non riesce a calmarsi, ma dovrebbe, la salute non è più quella di un tempo. Stringe le coperte nei pugni. Si alza dal letto, infila le pantofole e una vestaglia ed esce in giardino. La città è lontana ma non troppo, il mondo del calcio sì invece. "Per colpa tua mi son dovuto caricare una nazione intera sulle spalle - urla al vento - maledetto Johan!". Si alza uno stormo di anatre. La luce nella stanza si accende, sua moglie corre fuori, preoccupata. I capelli spettinati, gli occhi gonfi. "Ancora quell'incubo?" Rob annuisce senza dire nulla. Lei lo abbraccia e lo riaccompagna in casa, gli prepara una tisana allo zenzero e miele, la sua preferita. Rob non smette di ricordare: arrivò a un passo, anzi a pochi centimentri dalla gloria. Quella eterna. Quella che si prese Johan. Non si dà pace, Rob, perché lui, per l'ingrata Olanda, continuerà a prendere quel maledetto palo per tutta la vita.

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