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Wednesday, July 20, 2016

N.8

È la notte del giorno dopo Santo Stefano. Siamo a Minsterworth, Gloucestershire. Qui, dove le caratteristiche case di campagna sono illuminate dagli addobbi natalizi e un sottile velo di neve ghiacciata copre le campagne antistanti, lungo una statale, c'è uno squallido albergo di provincia. Si ferma solo gente di passaggio, una notte e poi via. Dietro i vetri appanati di una finestra di quello squallido albergo di provincia s'è accesa una luce. Dentro una di quelle stanze una mano incerta cerca la scatola di fiammiferi sul comodino. Una sigaretta pende dalla bocca storta. La lingua gonfia è impastata dall'alcol. Trema quella mano. Trema mentre cerca di accendere un maledetto fiammifero. Ne spezza uno. Un altro non si accende. Lo getta a terra.
"Fanculo."
Trema anche la voce.
Finalmente riesce ad accendere un maledetto fiammifero. Per qualche secondo l'esile fiammella illumina un poco di più quella squallida stanza di quello squallido albergo di provincia. La sua ombra china dal letto si proietta sino al muro coperto da una carta da parati di discutibile gusto. Finalmente un tiro di sigaretta a pieni polmoni. Ne segue un colpo di tosse secca. 
Il portiere, quel giovane e rachitico segaiolo, s'era raccomandato di non fumare all'interno della stanza.
"Mi raccomando signore, è per la moquette e la carta da parati."
"Fanculo te e la tua cazzo di carta da parati, piccolo figlietto di puttana. Dammi le chiavi."
"Ecco signore"
"Davvero non mi conosci?"
"No signore. Mai visto prima signore. Desolato signore."
"Meglio così."
Una nuvola di fumo ha ormai invaso la stanza. Ci passa attraverso, Paul, gli ricorda quei fumogeni nei derby infuocati di Roma. O le nebbie di Glasgow, quando entrava al pub per asciugarsi le ossa dopo un allenamento in mezzo al freddo e alla tristezza. In quei momenti sì che rimpiangeva Roma. Roma e il suo clima. Roma e la sua bellezza. Roma e i suoi eccessi.
Se ne sta in piedi in mezzo alla stanza, tra il letto e l'armadio con le ante aperte e lo specchio fissato a una di esse, la vestaglia di flanella slacciata gli copre solo la schiena, le spalle e le braccia. Evita di guardarsi allo specchio, Paul: si odia; calvo, flaccido, i tatuaggi deformati dalla pelle cadente, le occhiaie, le guance scavate e gli occhi crepati, spenti, opachi. Ha quarant'anni ma ne dimostra sessanta. È lontano da un pesoforma che non è riuscito a raggiungere nemmeno all'apice della sua carriera.
Pochi passi incerti dal letto al frigobar per prendere per il collo un'altra cazzo di bottiglia. E attaccarsi a quella come ai rimpianti.
Ripassa davanti allo specchio. Si lascia cadere sul letto. Fa di tutto per evitare d'incrociare lo sguardo con quel disperato. Ma non possono ignorarsi in eterno. Si riconosce, Paul, è lui quel disperato.
"Vaffanculo! Vaffanculo, cazzo!"
Sbraita mentre lancia una scarpa contro quello specchio del cazzo.
"Provaci tu, provaci tu a saltarci fuori.
Provaci tu a dimenticare le parole di tuo figlio!"
Anche il piccolo Regan lo sa. Lo sa che è un cazzo di ubriacone fallito. Ha paura di lui il piccolo Regan. Non vuole che torni a casa.
Forse ha solo paura per te, Paul.
Non è più un calciatore da un pezzo, Paul, quel tempo è passato e lo sa anche lui. Ma non è tardi per provare a essere di nuovo un padre. Non è tardi per tornare a essere di nuovo un marito. Non è tardi per tornare a essere di nuovo un uomo.
Un uomo nuovo.
No, non è tardi.
E mentre lo pensa si scola tutta la bottiglia, Paul. S'addormenta di traverso sul letto, la bottiglia vuota gli scivola dalla mano e cade sulla moquette senza fare rumore. Non sogna, Paul. Dorme e russa e sbuffa. Solo questo. Dorme finché il freddo e le prime luci dell'alba lo svegliano. La bottiglia è ancora per terra.
"Un uomo nuovo."
Prende il telefono, Paul. Fa lo zero e poi compone l'unico numero che si ricorda.
"Sono io. Voglio tornare a casa."

Thursday, October 22, 2015

Maledetto Johan!

Fa ancora molto freddo la mattina a Oostzaan, nelle pianure dell'Olanda Settentrionale. Il sole primaverile è quasi sorto ma nuvole cariche di pioggia portate dai venti provenienti dal mare oscurano in parte quella fresca alba. Siamo a pochi chilometri da Amsterdam, vicino al Markermeer, lì i mulini a vento pompano ancora acqua dai terreni per immetterla nei canali e nei fiumi al di là delle dighe, rendendo le campagne fertili. Coltivano soprattutto fiori e talenti da esportare.
Una stradina ghiaiosa porta a una casetta ricoperta di edera con lo steccato di legno bianco, riverniciato da poco, i tulipani stanno sbocciando in giardino.
Rob è ancora a letto con sua moglie. Dorme, ma è un sonno tormentato. Si agita e si contorce tra le coperte. Il solito incubo che torna, di tanto in tanto, da quasi quarant'anni. È tutto così nitido: l'odore dell'erba, le urla dell'allenatore, i cani poliziotto che abbaiano, la folla sulle tribune, la fatica nelle gambe. Quel fallo poco prima del cerchio di centrocampo, Krol non perde tempo, il novantesimo è appena scoccato, si va a prendere la palla e batte lunghissimo in mezzo all'area. Rob ha l'intuizione giusta, si butta in mezzo, brucia ancora una volta quel fabbro di Olguin e anticipa Fillol. Il Monumental trattiene il respiro. Silenzio. È un istante che sembra non finire mai. Le immagini sfocano tutte intorno alla palla che carambola sul palo come risucchiata da un vortice. Con un sussulto Rob si sveglia. Apre gli occhi nella penombra, le pulsazioni a mille, la fronte madida di sudore, le pillole per l'ansia sul comodino, vicino alla bottiglia d'acqua e alla radiosveglia. Ne butta giù un paio tracannando l'acqua direttamente dal collo della bottiglia. Al suo fianco non ci sono più Rep o Neeskens ma sua moglie, addormentata. Non indossa più la casacca arancione col 12 sulle spalle, ma un pigiama a righe bianco-malva, come il suo Anderlecht. Anche il Monumental è sparito. Di quell'attimo è rimasto solo il silenzio.
È contento Rob che sua moglie sia lì, accanto a lui, la guarda con tenerezza ancora, gli anni passano anche per lei, le rughe segnano le guance che sorridono anche quando dorme. Le accarezza i capelli ormai più bianchi che biondi. A lei non importava più da anni di quel che successe a Buenos Aires quel 25 giugno. Probabilmente non le importò mai nulla di quella partita. A lei importava solo che non si facesse male, che si divertisse e che fosse felice. Lei gli è sempre stata accanto, al contrario di Johan. "Johan, maledetto traditore - borbotta Rob con la voce spezzata dal sonno e dall'ansia - se solo avessi avuto le palle di venire. E poi ero io il talento timido".
Infatti Rob era quello bravo sì, dicevano, ma senza carattere. Silenzioso al punto giusto da divenire la spalla ideale di Johan. Johan, quello che parlava e parlava. Johan quello che piaceva a ragazze, bambini, tifosi e giornalisti. Ma Johan era anche quello che giocava, eccome se giocava. E vinceva. Eppure rinunciò alla convocazione, paura per la propria incolumità, spiegò.
Rob non riesce a calmarsi, ma dovrebbe, la salute non è più quella di un tempo. Stringe le coperte nei pugni. Si alza dal letto, infila le pantofole e una vestaglia ed esce in giardino. La città è lontana ma non troppo, il mondo del calcio sì invece. "Per colpa tua mi son dovuto caricare una nazione intera sulle spalle - urla al vento - maledetto Johan!". Si alza uno stormo di anatre. La luce nella stanza si accende, sua moglie corre fuori, preoccupata. I capelli spettinati, gli occhi gonfi. "Ancora quell'incubo?" Rob annuisce senza dire nulla. Lei lo abbraccia e lo riaccompagna in casa, gli prepara una tisana allo zenzero e miele, la sua preferita. Rob non smette di ricordare: arrivò a un passo, anzi a pochi centimentri dalla gloria. Quella eterna. Quella che si prese Johan. Non si dà pace, Rob, perché lui, per l'ingrata Olanda, continuerà a prendere quel maledetto palo per tutta la vita.

Thursday, October 08, 2015

Trancerie Mossina


15 novembre 1942. L’autunno volgeva al termine, ormai le gelate mattutine erano sempre più intense. Un venticello gelido spazzava via le foglie morte ammucchiate negli angoli del viale alberato che conduceva al “Calcaterra”.
Il Calcaterra era il nuovo stadio del paese, fu costruito circa una decina d’anni prima dal partito fascista in onore di un camerata locale andato a far la guerra in Grecia, partito dentro una camicia nera se ne tornò dentro quattro assi di legno. Lo stadio era circondato da mura alte quasi tre metri, interrotte solo dai cancelli d’accesso, ed era dotato di ampie tribune di legno. Un impianto moderno e polifunzionale, come voleva il partito, a dispetto del vecchio campo da gioco ricavato in uno spiazzo adiacente al baluardo delle Caserme, dove da naturale tribuna suppliva l’argine maestro che proteggeva la città dalle abituali piene del Po, mentre ora, proprio tra quell’argine e l’ex convento delle cappuccine, sorgevano, nel segno del Duce, le scuole dalla pianta a forma di M.
Pierino alla scuola aveva sempre preferito il pallone così, un po’ per scelta, un po’ per necessità smise di studiare e andò a lavorare in una bottega sotto i portici. Il resto del tempo lo passava a giocare in Piasöla con gli amici, sgambettando tra aiuole rinsecchite, randagi pelle e ossa e bastoni di vecchietti permalosi. Sognava di diventare calciatore, Perino, magari un’ala come il suo idolo, Brenno Milani, il numero sette locale, agile, veloce, elegante, capace di saltare le marcature dei terzini in tutti i modi e superare i portieri indifferentemente con tocchi morbidi o violenti bolidi.
Gli vollero diverse settimane per risparmiare i soldi del biglietto ma quel derby, Pierino, proprio non aveva nessuna intenzione di perderselo. La data della partita in casa contro la Reggiana era cerchiata in rosso sul calendario della bottega da quando il Solco Fascista aveva pubblicato i calendari dei gironi. Finalmente quel giorno era arrivato. Pierino si faceva largo tra quel fiume di gente che, chiassosa e, per una volta, festante, confluiva dal centro e dalla stazione dei treni a quel viale alberato che conduceva al Calcaterra. La folla era ormai accalcata ai cancelli d’ingresso, un paio di signori baffuti staccavano i biglietti e lasciavano entrare i tifosi che andavano a riempire disordinatamente tutti gli spazi delle tribune. Pierino, magro come chiodo, riuscì facilmente a incunearsi in quel marasma di gente per andarsi a prendere uno dei posti migliori, così da riuscire a guardare il più vicino possibile i propri idoli in calzoncini, più o meno gli stessi che avevano vinto due campionati in tre anni e adesso, dopo quattro vittorie e due sconfitte – peccato per la sconfitta di Imola, recriminava tra sé e sé Pierino – erano tributati da tutti come la grande sorpresa del girone emiliano di serie C. C’era il portiere Manfredini detto “Gomma”, coi guanti di pelle e il berretto di lana, c’erano i difensori Bonini e Bagni, solidi come rocce, la forte mezzala Carnevali, il mancino Bianchi sulla sinistra, il terzino Furattini, quella testa calda del centravanti Gino Manini e poi c’era lui, Brenno Milani, l’eroe di Pierino, l’ala destra dal gol facile.
Pierino continuava a guardarsi intorno, la bocca aperta e gli occhi persi tradivano un sentimento di meraviglia e stupore, non aveva mai visto lo stadio così affollato. Gli spalti erano gremiti da tremila persone, diranno le cronache, di cui circa milleduecento sostenitori granata da tutta la provincia e, in un angolo, un nutrito gruppo di tifosi crociati, giunti dal Ducato per spiare gli odiati cugini, sperando in una loro sconfitta per aumentare così il distacco in classifica da una delle dirette inseguitrici.
Il Cavalier Mossina, stretto dentro al suo giaccone in feltro di lana, s’accese un sigaro e prese il suo posto in tribuna accompagnato dalla moglie e dal fedelissimo dirigente Orfeo Veronesi, il vero artefice, si diceva, di quel miracolo sportivo. Il cavaliere distribuiva sorrisi ed elargiva strette di  mano a dirigenti, borghesi e alte cariche politiche locali, vantandosi di essere stato il primo, in Italia, ad aver creato questo innovativo connubio tra sponsorizzazione e calcio, grazie alle sue trancerie, le Trancerie Mossina. Si sentiva anche un po’ un benefattore, il Mossina, in un Paese mortificato e avvilito da due guerre, una in Russia e l’altra in Africa, lui dava lavoro a circa quattrocento persone, tra le quali la madre di Pierino e tante altre donne rimaste senza marito a causa del conflitto.
Forse l’emozione dopo l’attesa, forse il freddo, ma un brivido percorse la schiena di Pierino quando le squadre scesero in campo per il riscaldamento. I calciatori, nelle loro divise di lana, dopo aver ammorbidito gli scarpini ungendoli nel grasso di cavallo e averli provati in una valigia piena di terra, tastavano quel campo fangoso e gelato, delimitato da quattro sgangherate righe di gesso indurito dall’umidità e dal freddo, e iniziavano ad assaggiare quel pallone di cuoio cucito a mano da qualche signora, fermandosi un paio di volte per gonfiarlo.
L’arbitro richiamò le squadre, prese il pallone e lo posizionò a centrocampo: il derby poteva finalmente cominciare.
Il primo tempo corse via equilibrato, contratto, duro, avaro di emozioni e senza nessuna squadra capace di produrre una marcatura. Nel secondo tempo il bomber granata Zecca punì due volte Manfredini dopo aver eluso le marcature di Bonini e Bagni, ma i giocatori di casa, mai domi, a pochi minuti dal termine trovarono la via del gol con lo splendido missile al volo di Milani (proprio lui, l’avevo detto! esultò Pierino agitando un pugno per aria) che accorciò le distanze. Purtroppo a nulla valse l’arrembante finale per raggiungere un meritato quanto insperato pareggio. Così, dopo un gran colpo di testa di Manini a far la barba al palo, arrivò il triplice fischio e il popolo granata poté esultare, la prima squadra della provincia era ancora la Reggiana. Il pubblico di casa applaudì comunque la prestazione dei loro undici, usciti a testa alta dal confronto con una realtà con ben altre disponibilità economiche.
Il Cavalier Mossina spense il sigaro, l’ultima nuvola di fumo nascose l’espressione delusa del suo viso. S’alzò, strinse le solite mani, distribuì i soliti sorrisi di circostanza complimentandosi con vinti e vincitori, confabulò qualcosa col fido Veronesi e poi, insieme alla moglie, se ne andò a casa.
Gli spettatori avevano ormai lasciato tutti il Calcaterra, Pierino rimase da solo sui gradoni lignei della tribuna, fissava il campo deserto e martoriato dalla competizione mentre il vento spazzava biglietti e fogli di giornale stropicciati e il cielo iniziava a imbrunire. Fu una grande delusione sportiva, solo la prima di una lunga serie, ma fu la scintilla che accese un amore che non si spense mai.

Saturday, September 20, 2014

Il sogno


Vecchio si svegliò nel buio della sua stanza. Aprì gli occhi all’improvviso come quando ci si sveglia da un incubo. Ma quello che fece non fu un incubo, o almeno non gli parve tale. E poi dagli incubi di solito ci si sveglia urlando, sudati e con il battito cardiaco accelerato. Niente di tutto ciò per lui, solo un paio di occhi spalancati nelle tenebre e il rumore delle auto che sfrecciavano lontane nella notte lungo la via Emilia. Portò le mani alle tempie, tastandole per assicurarsi che fosse tutto a posto e accese la luce. Prima ispezionò il cuscino, dopo si guardò intorno, sembrava tutto in ordine, sempre che di ordine si potesse parlare. Quindi si alzò da letto e andò in cucina per bere un bicchiere d’acqua fresca.
Era la terza notte di fila che gli succedeva. Svegliarsi così, all’improvviso, a causa di quello che per chiunque sarebbe stato un incubo ma che invece per lui sembrava essere solo un sogno. Un po' strano, forse, ma i sogni non sono mai banali.
Una stanza nella penombra, quattro mura prive di finestre, una porta chiusa alle spalle, solo una luce tenue cadeva dall’alto e illuminava un semplice tavolo, quattro gambe e un’asse di legno scuro. Al centro di questo tavolo una pistola. Non ricordava che tipo di pistola fosse. Ma lui ne era tanto attratto da non riuscire a resistere dall’afferrarla e portarsela alla tempia. La sentiva in mano, pesava due o tre chili. La stringeva. Le dita avvolte intorno al calcio. Riusciva persino a percepire tutti i meccanismi azionarsi fino all’esplosione del proiettile mentre premeva il grilletto. Lo premeva spinto solo da un sentimento di curiosità. Una curiosità morbosa e oscura: quella della morte e del morire. Ciò che si prova in quell’istante: il dolore, la paura, il trapasso, l’oblio.
Vecchio aprì il rubinetto, prese un bicchiere dal secchiaio, lo sciacquò, poi lo riempì d’acqua fresca e bevve. Ripose il bicchiere vuoto dove l’aveva trovato. Pensava ancora a quel sogno, ma tra tutte quelle stranezze lui continuava solo a chiedersi perché spararsi di sinistro. A lui, che non era affatto mancino, sembrava l'unica cosa strana. Andò in bagno, accese la luce e si mise davanti allo specchio. Si rinfrescò anche il viso. Pensò che se il vero lui fosse quel tizio che lo fissava dietro allo specchio, allora sì, impugnerebbe l’arma con la mano destra, quella giusta.
Accarezzò la fredda superficie riflettente e l'uomo dall'altra parte fece lo stesso. Poi si portò le dita della mano sinistra alla tempia mimando una pistola. Il tizio dentro lo specchio sorrise e tirò il grilletto.
Fu di nuovo buio.
Per l'ultima volta.

Friday, February 21, 2014

Branco

Introduzione: questo racconto era una cosa che avevo pensato per S. Valentino, poi non avevo fatto in tempo a finire, e come al solito, le cose che non finisco s'evolvono in un'altra maniera totalmente diversa. Ok, è comunque un racconto di S.Valentino - molto crudo, vabbè, lo volevo così - ma vuole essere anche un piccolo omaggio al mio mondo della bici e a quei pochi esempi positivi che mi sono rimasti.
Buonanotte.

In tre la tenevano ferma. Il quarto le stava di fronte, in piedi. La guardava. Le afferrò il collo, glielo strinse. Lei non urlava più, solo piangeva e pregava d'essere lasciata in pace. Supplicava. "Dai, che adesso ci divertiamo" le disse freddo come l'inferno. Aveva gli occhi del diavolo. Le strappò la camicetta. Le accarezzò una coscia che spuntava dallo spacco nella gonna rossa e provocante. Le venne la pelle d'oca. Urlò, istintiva. Lui la ricambiò con uno schiaffo. "Ti abbiamo detto di non urlare". Le sfilò la cintura. Le strappò la gonna. Lei guardava in basso, così umiliata, spaventata, abbandonata. Così sola. Lui le guardò quel corpo così perfetto, così bramato. Era tanto che sognava di scoparsela, ma ogni sua attenzione era sempre stata rifiutata. Respinta. Rimandata al mittente, come i fiori a San Valentino, l'anno scorso. Adesso era lì e non poteva dire no. Non poteva più respingerlo. S'accorse solo allora della sua erezione costretta dentro i pantaloni. Li slacciò e poi li sfilò e si gettò addosso a lei che urlò tutto il suo orrore. Un urlo che lo fece incazzare così tanto da andare di matto: la spinse a terra e la prese a pugni in faccia. Il sangue le usciva copioso dal naso e da un labbro gonfio e tagliato. Aveva un occhio pesto, chiuso. Non si muoveva più. Non piangeva più. Non urlava più.
Il branco ora avrebbe approfittato di lei.
Fecero un po' a turno.
In lontananza si sentì un cigolio.
"Shhh! Avete sentito? Che cazzo è?" s’insospettì uno.
"Sarà il vento tra gli alberi" tirò a indovinare un altro.
"Oh ah ah" un altro la stava ancora montando.
Quel cigolio s'avvicinava sempre di più.
Erano lontani dalla strada, e poi in mezzo a quel boschetto passava solo una pista ciclabile. Ma a febbraio, di notte, con quel freddo e con quella nebbia non sarebbe mai passato nessuno s’erano ripetuti. Avevano lasciato l'auto al parcheggio giù al fiume, poco distante. E poi erano venuti a piedi. Dalla ciclabile il cigolio si fece sempre più vicino. Un faretto apparve nella nebbia, dietro di lui una sagoma. Rumore di freni bagnati. Lo videro lì sulla strada, a una quindicina di metri. Gli sguardi rimasero sospesi nell'aria. "Prendiamolo!" Si erano visti, si erano riconosciuti. Partirono alla rincorsa di quella figura nella nebbia.
Marco sognava di fare il ciclista ma a dodici anni una malattia gli cosse il cervello. Marco il matto iniziarono a chiamarlo. Addio ciclismo, addio sogni di gloria, dissero. Ma lui continuò sempre a sognare e non smise mai di pedalare. Fregandosene di tutto e tutti. Passava le sue giornate in sella a una vecchia Bianchi Lusso del ’55. Era tutto quello che aveva.
E aveva anche visto tutto Marco il matto. Aveva visto quella scena e anche il branco sapeva che Marco, pur essendo matto, era in grado di riconoscere benissimo il bene dal male. E il branco era il male. E il male rincorreva Marco che, nonostante le quarantaquattro primavere, filava come il vento tra gli alberi e la nebbia. Si mangiava la strada sollevando foglie morte con quegli altri dietro a rincorrerlo. Il boschetto era ormai alle spalle, e Marco sentiva d'aver vinto la sua gara, si guardò indietro e li vide lontani. Sorrise. Tornò con gli occhi sulla strada. Era all'incrocio. I freni non funzionavano un granché quand'erano bagnati. Lungo la provinciale che tagliava in mezzo il paese, le macchine filavano lanciate. Evitò la prima, ma non fece in tempo a evitare la seconda. Chiuse gli occhi. Lo schianto. Venne falciato.
Il branco si fermò. Assistette alla scena. Sguardi d'intesa, respiri affaticati, pacche sulle spalle piegate sulle ginocchia, sorrisi su visi distesi. Tornarono indietro a finire di divertirsi.

Due giorni dopo il branco venne arrestato.
Due giorni dopo il corpo di una ragazza venne trovato incastrato tra dei sassi e dei rami lungo la sponda del fiume.
Due giorni dopo Marco il matto morì per le ferite riportate nello scontro con una vettura la notte del 14 febbraio.

Monday, January 06, 2014

Il pittore


Il bar non ti regala ricordi ma i ricordi portano sempre al bar, recitava da qualche parte il buon Vinicio.
Loris il pittore se ne stava accucciato a bancone, come il suo cane sul pavimento appena un metro e mezzo più sotto, sbronzo come al solito ma più ombroso e tormentato delle altre volte. Ogni tanto alzava la testa e si guardava intorno annoiato e sonnolento, sbadigliando a bocca aperta scoprendo i denti ingialliti dal fumo. Sulla testa lucida e completamente pelata riflettevano le luci soffuse delle lampade del locale.
Loris in realtà faceva l'imbianchino, ma preferiva essere chiamato Pittore, un po' perché diceva di far quadri, tele, sculture e altre opere d'arte; un po' perché, a chi se lo portava in casa a far qualche lavoro, chiedeva sempre se desiderasse un qualche ricamo pregiato o qualche disegno particolare affrescato alla parete. Loris il pittore si credeva un artista. Quanto lo fosse o quanto lo volesse fare non l'ho mai capito.
Era lì da almeno un'ora buona, Loris, quand'entrai io. Quelli come me amano sedere a bancone per diversi motivi: perché le birre arrivano prima, perché controllano come i baristi lavorano di spina, e perché entrano da soli e non ha senso occupare un tavolo intero quando sei da solo.
Mi tolsi la giacca e l'appesi sotto il bancone, di fianco a quella di Loris. Mi salutò con un cenno del mento, tenendo le braccia conserte appoggiate sul mogano. Chiesi una pinta, che quello non era il solito bar e avevano birre irlandesi, non quelle tedesche e di conseguenza cambiavano anche le misure dei bicchieri.
Guardai il birraio lavorarmi la birra, badavo sempre che non immergessero il rubinetto della spina nel bicchiere colmo.
- Fanne due, pago io.
Fece la voce alla mia sinistra.
- Grazie Loris.
Mi limitai a dire, consapevole che quello, col pretesto della birra, avrebbe inevitabilmente attaccato a raccontarmi gli scazzi d’una vita. Infatti attaccò a parlare del divorzio, della moglie cagna e ingorda che l'aveva piantato come un fallito qualsiasi e lo stava prosciugando come un canale ad agosto, siccome s'era presa la casa, i soldi e la figlia. E della stessa figlia ormai adolescente che non lo rispettava più. E gl'era rimasto giusto il cane, un bastardino di media taglia, tanto malconcio quanto docile e fedele, almeno lui. E più parlava più le parole gli si gonfiavano d'una sana e onesta rabbia e d'una esasperazione quanto mai giustificata.
In verità la moglie era semplicemente una donna alla deriva: triste e sola. Andava nei locali ad adescare giovinastri che la facessero sentire viva, attraente e desiderata come un tempo. Che la facessero sentire ancora una vera donna per una volta, e lei sapeva benissimo che ogni volta poteva essere l'ultima.
Per quanto riguardava la figlia ormai adolescente, era anch'ella una piccola troia in divenire: spompinava i dj per avere gl'ingressi e gli omaggi gratis nelle discoteche e nei club di mezza Emilia.
- Loris - gli dissi prendendolo per un braccio - ascolta me: non ti perdi un cazzo.
Gli offrii un'altra birra e me ne andai.

Friday, September 13, 2013

Buco


Copyright Silvia Bernazzali 2013
Un buco pieno di nebbia, così lo chiamava, Vecchio. Era più il tempo che passava a chiedersi cosa ci facesse ancora lì rispetto a quello che dedicava a se stesso ormai.
Vecchio non era felice, o non credeva d'esserlo. Non gl'interessava. E non gl'interessava nemmeno che la cosa si notasse, malcelata com'era tra quegli occhi crepati e tra quei sorrisi spigolosi ch'elargiva con parsimonia. Ridi ogni tanto, gli diceva sempre la Nonna. Una vecchia donna dalla pelle incartapecorita che sosteneva d'averne viste tante, nonostante avesse sempre vissuto in quel buco pieno di nebbia. Eppure possedeva una vitalità eccezionale, la Nonna, e uno spirito tanto forte quanto pessimista. Era la paura a tenerla così in forma. La fottuta paura della morte. Sapete, è quello spirito di sopravvivenza, di conservazione della specie o di come diavolo lo volete chiamare che ci spinge oltre i nostri limiti. È la paura della morte che ti tiene in vita. A meno che tu non sia un matto o un eroe, ma spesso le due cose coincidono e ti portano allo stesso scontato epilogo.
Non ne poteva più, Vecchio. L'aspettativa di una vita sedentaria lo sfiniva. Gli massacrava il fegato e il cuore e gli stringeva lo stomaco. Aspettava una svolta, la desiderava con disperazione. Perché dietro alla disperazione c'è sempre la speranza. Quel colpo di fortuna rimasto in canna e mai esploso. Aspettarlo seduto otto ore al giorno davanti a una scrivania mentre si perdono i capelli, la vista, i denti, la linea. I nervi. La bellezza. La giovinezza. Che alla fine inevitabilmente si perde. Punto. E ci si ritrova come quei vecchi al bar. Che non hanno più nessuno, dopo aver passato la vita a spaccarsi il filone della schiena per guadagnare dei soldi che nemmeno si son permessi il lusso di spendere. Se ne stanno lì, seduti ai tavolini dei bar, o peggio dei circoli, a bere bianchini, ch'è l'unico piacere che gl'è rimasto, mentre stropicciano i giornali e parlano del calcio d'inverno e del Giro d'estate. Manco la figa li scuote più. Forse avranno aspettato una svolta anche loro, sicuramente invano.

Non gli interessavano più quelle storie, a Vecchio, erano sempre le stesse, dopotutto. Non aveva più manco la fantasia d'inventarsene delle nuove; temeva di perdere l'immaginazione in quel buco pieno di nebbia. Voleva andare lontano e iniziare a scoprire. Raccogliere nuove storie in giro per il mondo e poi raccontarle.
Ché il mondo è fatto di storie. Storie da raccontare. Storie incredibili, rinchiuse tra due labbra serrate, mordenti. Celate dietro un paio d’occhi stanchi. Nascoste in angoli bui. Abbandonate su un marciapiede ai bordi di una strada, oppure in una piazza o in un'isola sperduta in mezzo al mare. Ma tutte con la stessa voglia viscerale d'essere raccontate. Anche di nascosto: sussurrate in un orecchio tra i banchi di scuola, confessate a un prete o a una puttana, o sfuggite dalla lingua dopo un bicchiere di troppo davanti al bancone d'un bar.
Storie. Nient'altro.
Lo sapeva, Vecchio. Ed era proprio questo che cercava.
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