Thursday, October 08, 2015

Trancerie Mossina


15 novembre 1942. L’autunno volgeva al termine, ormai le gelate mattutine erano sempre più intense. Un venticello gelido spazzava via le foglie morte ammucchiate negli angoli del viale alberato che conduceva al “Calcaterra”.
Il Calcaterra era il nuovo stadio del paese, fu costruito circa una decina d’anni prima dal partito fascista in onore di un camerata locale andato a far la guerra in Grecia, partito dentro una camicia nera se ne tornò dentro quattro assi di legno. Lo stadio era circondato da mura alte quasi tre metri, interrotte solo dai cancelli d’accesso, ed era dotato di ampie tribune di legno. Un impianto moderno e polifunzionale, come voleva il partito, a dispetto del vecchio campo da gioco ricavato in uno spiazzo adiacente al baluardo delle Caserme, dove da naturale tribuna suppliva l’argine maestro che proteggeva la città dalle abituali piene del Po, mentre ora, proprio tra quell’argine e l’ex convento delle cappuccine, sorgevano, nel segno del Duce, le scuole dalla pianta a forma di M.
Pierino alla scuola aveva sempre preferito il pallone così, un po’ per scelta, un po’ per necessità smise di studiare e andò a lavorare in una bottega sotto i portici. Il resto del tempo lo passava a giocare in Piasöla con gli amici, sgambettando tra aiuole rinsecchite, randagi pelle e ossa e bastoni di vecchietti permalosi. Sognava di diventare calciatore, Perino, magari un’ala come il suo idolo, Brenno Milani, il numero sette locale, agile, veloce, elegante, capace di saltare le marcature dei terzini in tutti i modi e superare i portieri indifferentemente con tocchi morbidi o violenti bolidi.
Gli vollero diverse settimane per risparmiare i soldi del biglietto ma quel derby, Pierino, proprio non aveva nessuna intenzione di perderselo. La data della partita in casa contro la Reggiana era cerchiata in rosso sul calendario della bottega da quando il Solco Fascista aveva pubblicato i calendari dei gironi. Finalmente quel giorno era arrivato. Pierino si faceva largo tra quel fiume di gente che, chiassosa e, per una volta, festante, confluiva dal centro e dalla stazione dei treni a quel viale alberato che conduceva al Calcaterra. La folla era ormai accalcata ai cancelli d’ingresso, un paio di signori baffuti staccavano i biglietti e lasciavano entrare i tifosi che andavano a riempire disordinatamente tutti gli spazi delle tribune. Pierino, magro come chiodo, riuscì facilmente a incunearsi in quel marasma di gente per andarsi a prendere uno dei posti migliori, così da riuscire a guardare il più vicino possibile i propri idoli in calzoncini, più o meno gli stessi che avevano vinto due campionati in tre anni e adesso, dopo quattro vittorie e due sconfitte – peccato per la sconfitta di Imola, recriminava tra sé e sé Pierino – erano tributati da tutti come la grande sorpresa del girone emiliano di serie C. C’era il portiere Manfredini detto “Gomma”, coi guanti di pelle e il berretto di lana, c’erano i difensori Bonini e Bagni, solidi come rocce, la forte mezzala Carnevali, il mancino Bianchi sulla sinistra, il terzino Furattini, quella testa calda del centravanti Gino Manini e poi c’era lui, Brenno Milani, l’eroe di Pierino, l’ala destra dal gol facile.
Pierino continuava a guardarsi intorno, la bocca aperta e gli occhi persi tradivano un sentimento di meraviglia e stupore, non aveva mai visto lo stadio così affollato. Gli spalti erano gremiti da tremila persone, diranno le cronache, di cui circa milleduecento sostenitori granata da tutta la provincia e, in un angolo, un nutrito gruppo di tifosi crociati, giunti dal Ducato per spiare gli odiati cugini, sperando in una loro sconfitta per aumentare così il distacco in classifica da una delle dirette inseguitrici.
Il Cavalier Mossina, stretto dentro al suo giaccone in feltro di lana, s’accese un sigaro e prese il suo posto in tribuna accompagnato dalla moglie e dal fedelissimo dirigente Orfeo Veronesi, il vero artefice, si diceva, di quel miracolo sportivo. Il cavaliere distribuiva sorrisi ed elargiva strette di  mano a dirigenti, borghesi e alte cariche politiche locali, vantandosi di essere stato il primo, in Italia, ad aver creato questo innovativo connubio tra sponsorizzazione e calcio, grazie alle sue trancerie, le Trancerie Mossina. Si sentiva anche un po’ un benefattore, il Mossina, in un Paese mortificato e avvilito da due guerre, una in Russia e l’altra in Africa, lui dava lavoro a circa quattrocento persone, tra le quali la madre di Pierino e tante altre donne rimaste senza marito a causa del conflitto.
Forse l’emozione dopo l’attesa, forse il freddo, ma un brivido percorse la schiena di Pierino quando le squadre scesero in campo per il riscaldamento. I calciatori, nelle loro divise di lana, dopo aver ammorbidito gli scarpini ungendoli nel grasso di cavallo e averli provati in una valigia piena di terra, tastavano quel campo fangoso e gelato, delimitato da quattro sgangherate righe di gesso indurito dall’umidità e dal freddo, e iniziavano ad assaggiare quel pallone di cuoio cucito a mano da qualche signora, fermandosi un paio di volte per gonfiarlo.
L’arbitro richiamò le squadre, prese il pallone e lo posizionò a centrocampo: il derby poteva finalmente cominciare.
Il primo tempo corse via equilibrato, contratto, duro, avaro di emozioni e senza nessuna squadra capace di produrre una marcatura. Nel secondo tempo il bomber granata Zecca punì due volte Manfredini dopo aver eluso le marcature di Bonini e Bagni, ma i giocatori di casa, mai domi, a pochi minuti dal termine trovarono la via del gol con lo splendido missile al volo di Milani (proprio lui, l’avevo detto! esultò Pierino agitando un pugno per aria) che accorciò le distanze. Purtroppo a nulla valse l’arrembante finale per raggiungere un meritato quanto insperato pareggio. Così, dopo un gran colpo di testa di Manini a far la barba al palo, arrivò il triplice fischio e il popolo granata poté esultare, la prima squadra della provincia era ancora la Reggiana. Il pubblico di casa applaudì comunque la prestazione dei loro undici, usciti a testa alta dal confronto con una realtà con ben altre disponibilità economiche.
Il Cavalier Mossina spense il sigaro, l’ultima nuvola di fumo nascose l’espressione delusa del suo viso. S’alzò, strinse le solite mani, distribuì i soliti sorrisi di circostanza complimentandosi con vinti e vincitori, confabulò qualcosa col fido Veronesi e poi, insieme alla moglie, se ne andò a casa.
Gli spettatori avevano ormai lasciato tutti il Calcaterra, Pierino rimase da solo sui gradoni lignei della tribuna, fissava il campo deserto e martoriato dalla competizione mentre il vento spazzava biglietti e fogli di giornale stropicciati e il cielo iniziava a imbrunire. Fu una grande delusione sportiva, solo la prima di una lunga serie, ma fu la scintilla che accese un amore che non si spense mai.

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