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novembre 1942. L’autunno volgeva al termine, ormai le gelate mattutine erano
sempre più intense. Un venticello gelido spazzava via le foglie morte
ammucchiate negli angoli del viale alberato che conduceva al “Calcaterra”.
Il
Calcaterra era il nuovo stadio del paese, fu costruito circa una decina d’anni
prima dal partito fascista in onore di un camerata locale andato a far la
guerra in Grecia, partito dentro una camicia nera se ne tornò dentro quattro
assi di legno. Lo stadio era circondato da mura alte quasi tre metri,
interrotte solo dai cancelli d’accesso, ed era dotato di ampie tribune di
legno. Un impianto moderno e polifunzionale, come voleva il partito, a dispetto
del vecchio campo da gioco ricavato in uno spiazzo adiacente al baluardo delle
Caserme, dove da naturale tribuna suppliva l’argine maestro che proteggeva la
città dalle abituali piene del Po, mentre ora, proprio tra quell’argine e l’ex
convento delle cappuccine, sorgevano, nel segno del Duce, le scuole dalla
pianta a forma di M.
Pierino
alla scuola aveva sempre preferito il pallone così, un po’ per scelta, un po’
per necessità smise di studiare e andò a lavorare in una bottega sotto i
portici. Il resto del tempo lo passava a giocare in Piasöla con gli amici, sgambettando tra aiuole rinsecchite, randagi
pelle e ossa e bastoni di vecchietti permalosi. Sognava di diventare calciatore,
Perino, magari un’ala come il suo idolo, Brenno Milani, il numero sette locale,
agile, veloce, elegante, capace di saltare le marcature dei terzini in tutti i
modi e superare i portieri indifferentemente con tocchi morbidi o violenti
bolidi.
Gli
vollero diverse settimane per risparmiare i soldi del biglietto ma quel derby,
Pierino, proprio non aveva nessuna intenzione di perderselo. La data della partita
in casa contro la Reggiana era cerchiata in rosso sul calendario della bottega da
quando il Solco Fascista aveva
pubblicato i calendari dei gironi. Finalmente quel giorno era arrivato. Pierino
si faceva largo tra quel fiume di gente che, chiassosa e, per una volta,
festante, confluiva dal centro e dalla stazione dei treni a quel viale alberato
che conduceva al Calcaterra. La folla era ormai accalcata ai cancelli d’ingresso,
un paio di signori baffuti staccavano i biglietti e lasciavano entrare i tifosi
che andavano a riempire disordinatamente tutti gli spazi delle tribune.
Pierino, magro come chiodo, riuscì facilmente a incunearsi in quel marasma di
gente per andarsi a prendere uno dei posti migliori, così da riuscire a
guardare il più vicino possibile i propri idoli in calzoncini, più o meno gli
stessi che avevano vinto due campionati in tre anni e adesso, dopo quattro
vittorie e due sconfitte – peccato per la
sconfitta di Imola, recriminava tra sé e sé Pierino – erano tributati da
tutti come la grande sorpresa del girone emiliano di serie C. C’era il portiere
Manfredini detto “Gomma”, coi guanti di pelle e il berretto di lana, c’erano i
difensori Bonini e Bagni, solidi come rocce, la forte mezzala Carnevali, il
mancino Bianchi sulla sinistra, il terzino Furattini, quella testa calda del
centravanti Gino Manini e poi c’era lui, Brenno Milani, l’eroe di Pierino, l’ala
destra dal gol facile.
Pierino
continuava a guardarsi intorno, la bocca aperta e gli occhi persi tradivano un
sentimento di meraviglia e stupore, non aveva mai visto lo stadio così affollato.
Gli spalti erano gremiti da tremila persone, diranno le cronache, di cui circa
milleduecento sostenitori granata da tutta la provincia e, in un angolo, un
nutrito gruppo di tifosi crociati, giunti dal Ducato per spiare gli odiati
cugini, sperando in una loro sconfitta per aumentare così il distacco in
classifica da una delle dirette inseguitrici.
Il
Cavalier Mossina, stretto dentro al suo giaccone in feltro di lana, s’accese un
sigaro e prese il suo posto in tribuna accompagnato dalla moglie e dal
fedelissimo dirigente Orfeo Veronesi, il vero artefice, si diceva, di quel
miracolo sportivo. Il cavaliere distribuiva sorrisi ed elargiva strette di mano a dirigenti, borghesi e alte cariche politiche
locali, vantandosi di essere stato il primo, in Italia, ad aver creato questo
innovativo connubio tra sponsorizzazione e calcio, grazie alle sue trancerie,
le Trancerie Mossina. Si sentiva anche un po’ un benefattore, il Mossina, in un
Paese mortificato e avvilito da due guerre, una in Russia e l’altra in Africa,
lui dava lavoro a circa quattrocento persone, tra le quali la madre di Pierino
e tante altre donne rimaste senza marito a causa del conflitto.
Forse
l’emozione dopo l’attesa, forse il freddo, ma un brivido percorse la schiena di
Pierino quando le squadre scesero in campo per il riscaldamento. I calciatori,
nelle loro divise di lana, dopo aver ammorbidito gli scarpini ungendoli nel
grasso di cavallo e averli provati in una valigia piena di terra, tastavano
quel campo fangoso e gelato, delimitato da quattro sgangherate righe di gesso
indurito dall’umidità e dal freddo, e iniziavano ad assaggiare quel pallone di
cuoio cucito a mano da qualche signora, fermandosi un paio di volte per
gonfiarlo.
L’arbitro
richiamò le squadre, prese il pallone e lo posizionò a centrocampo: il derby
poteva finalmente cominciare.
Il
primo tempo corse via equilibrato, contratto, duro, avaro di emozioni e senza
nessuna squadra capace di produrre una marcatura. Nel secondo tempo il bomber granata
Zecca punì due volte Manfredini dopo aver eluso le marcature di Bonini e Bagni, ma i giocatori di casa, mai domi, a pochi minuti dal termine trovarono la via
del gol con lo splendido missile al volo di Milani (proprio lui, l’avevo detto! esultò Pierino agitando un pugno per
aria) che accorciò le distanze. Purtroppo a nulla valse l’arrembante finale per
raggiungere un meritato quanto insperato pareggio. Così, dopo un gran colpo di
testa di Manini a far la barba al palo, arrivò il triplice fischio e il popolo
granata poté esultare, la prima squadra della provincia era ancora la Reggiana.
Il pubblico di casa applaudì comunque la prestazione dei loro undici, usciti a testa
alta dal confronto con una realtà con ben altre disponibilità economiche.
Il
Cavalier Mossina spense il sigaro, l’ultima nuvola di fumo nascose l’espressione
delusa del suo viso. S’alzò, strinse le solite mani, distribuì i soliti sorrisi
di circostanza complimentandosi con vinti e vincitori, confabulò qualcosa col
fido Veronesi e poi, insieme alla moglie, se ne andò a casa.
Gli
spettatori avevano ormai lasciato tutti il Calcaterra, Pierino rimase da solo
sui gradoni lignei della tribuna, fissava il campo deserto e martoriato dalla
competizione mentre il vento spazzava biglietti e fogli di giornale stropicciati
e il cielo iniziava a imbrunire. Fu una grande delusione sportiva, solo la
prima di una lunga serie, ma fu la scintilla che accese un amore che non si
spense mai.
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