Sentì
il cranio scricchiolare e poi spaccarsi. Lo sentì diventare molle sotto i suoi
colpi.
Uno.
Due. Tre. Cinque. Dieci. Continuò a colpire quella massa inerme finché la
rabbia, quella stessa rabbia che fino a quel punto l’aveva portato, cessò di
schianto, sul pavimento, in ginocchio. La rabbia non c’era più, lasciò il posto
alla stanchezza e all’eco fragoroso di quei colpi nella sua testa. Le tempie
pulsavano impazzite. Le mani tremavano dolenti. Era esausto, sentiva le forze
venir meno: le braccia erano deboli, le gambe molli e quel pezzo di legno adesso
pesava come una trave di cemento armato. Spalancò la bocca per incanalare più
aria possibile.
Il
pavimento era diventato scivoloso a causa di tutto quel sangue uscito dalla
testa spaccata o da quel che ne rimaneva. Tutt’intorno era nero come la morte,
nero come la sua ira. Solo una lama di luce lunare penetrava dalla finestra
illuminando quel corpo bianco di donna dalla pelle morbida e dai seni tondi e
generosi, quel corpo un tempo pieno di vita e che avrebbe potuto dare altra
vita alla vita stessa.
Si
dovette appoggiare al muro per non perdere l’equilibrio e non rovinare a terra.
Anche i suoi vestiti erano impregnati di quel sangue nero:
la camicia, i pantaloni, le scarpe, persino le mutande e i calzini. Gli schizzi
neri della sua ira sul viso, sul collo, nei capelli, si pulì gli occhi col
dorso della mano per trovare un po’ di lucidità. E non poté non sentire quel
sapore salato e ferroso sulla punta della lingua e sulle labbra. Decise di spogliarsi,
farsi una doccia e poi mangiare. Doveva ritrovare la sua dimensione umana. Del
corpo e di tutto quel casino ci avrebbe pensato dopo.
La
bestia era scappata dalla sua gabbia. Si voltò un attimo a guardarlo. Poi
scomparve.
Non sarebbe più tornata.
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