Un buco pieno di nebbia,
così lo chiamava, Vecchio. Era più il tempo che passava a chiedersi cosa ci
facesse ancora lì rispetto a quello che dedicava a se stesso ormai.
Vecchio non era felice, o
non credeva d'esserlo. Non gl'interessava. E non gl'interessava nemmeno che la
cosa si notasse, malcelata com'era tra quegli occhi crepati e tra quei sorrisi
spigolosi ch'elargiva con parsimonia. Ridi
ogni tanto, gli diceva sempre la Nonna. Una vecchia donna dalla pelle
incartapecorita che sosteneva d'averne viste tante, nonostante avesse sempre
vissuto in quel buco pieno di nebbia. Eppure possedeva una vitalità
eccezionale, la Nonna, e uno spirito tanto forte quanto pessimista. Era la
paura a tenerla così in forma. La fottuta paura della morte. Sapete, è quello
spirito di sopravvivenza, di conservazione della specie o di come diavolo lo
volete chiamare che ci spinge oltre i nostri limiti. È la paura della morte che
ti tiene in vita. A meno che tu non sia un matto o un eroe, ma spesso le due
cose coincidono e ti portano allo stesso scontato epilogo.
Non ne poteva più, Vecchio.
L'aspettativa di una vita sedentaria lo sfiniva. Gli massacrava il fegato e il
cuore e gli stringeva lo stomaco. Aspettava una svolta, la desiderava con
disperazione. Perché dietro alla disperazione c'è sempre la speranza. Quel
colpo di fortuna rimasto in canna e mai esploso. Aspettarlo seduto otto ore al
giorno davanti a una scrivania mentre si perdono i capelli, la vista, i denti,
la linea. I nervi. La bellezza. La giovinezza. Che alla fine inevitabilmente si
perde. Punto. E ci si ritrova come quei vecchi al bar. Che non hanno più
nessuno, dopo aver passato la vita a spaccarsi il filone della schiena per
guadagnare dei soldi che nemmeno si son permessi il lusso di spendere. Se ne
stanno lì, seduti ai tavolini dei bar, o peggio dei circoli, a bere bianchini,
ch'è l'unico piacere che gl'è rimasto, mentre stropicciano i giornali e parlano
del calcio d'inverno e del Giro d'estate. Manco la figa li scuote più. Forse
avranno aspettato una svolta anche loro, sicuramente invano.
Non gli interessavano più
quelle storie, a Vecchio, erano sempre le stesse, dopotutto. Non aveva più manco
la fantasia d'inventarsene delle nuove; temeva di perdere l'immaginazione in
quel buco pieno di nebbia. Voleva andare lontano e iniziare a scoprire.
Raccogliere nuove storie in giro per il mondo e poi raccontarle.
Ché il mondo è fatto di
storie. Storie da raccontare. Storie incredibili, rinchiuse tra due labbra
serrate, mordenti. Celate dietro un paio d’occhi stanchi. Nascoste in angoli bui.
Abbandonate su un marciapiede ai bordi di una strada, oppure in una piazza o in
un'isola sperduta in mezzo al mare. Ma tutte con la stessa voglia viscerale d'essere
raccontate. Anche di nascosto: sussurrate in un orecchio tra i banchi di
scuola, confessate a un prete o a una puttana, o sfuggite dalla lingua dopo un
bicchiere di troppo davanti al bancone d'un bar.
Storie. Nient'altro.
Lo sapeva, Vecchio. Ed era
proprio questo che cercava.
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