Friday, October 25, 2013

Ostello


Non tutti mi crederanno ma c'è chi ama l'autunno, come il sottoscritto. E forse saremo anche pochi poveri diavoli, ma questo non importa. Importa lui, l'autunno: le nebbie, le piogge, i primi freddi. I suoi colori e i suoi frutti: i mandarini, le arachidi, le zucche, le castagne, i funghi. E il piacere dei primi cappelletti, quelli che "come li fa la nonna nessuno". D'autunno mi capita sempre qualcosa da raccontare o qualcos’altro su cui riflettere. Non so perché ma è puntuale come il Natale.
Era un sabato, la notte precedente un acquazzone aveva spazzato via le nuvole e pulito l'aria da nebbie e foschie. E i pomeriggi con un cielo così limpido da poter scorgere gli Appennini all'orizzonte sono l'ideale per fare uno degli ultimi giri in bici. Scendo in strada, salgo in sella e filo via, veloce ma senza fretta, prendo il viale, poi lungo gli argini, pedalo su e giù per la golena. Seguo le ciclabili senza una meta precisa, perso nelle cuffiette dell'iPod e nei cazzi miei, le conosco a memoria quelle stradine, come le mie tasche, o addirittura meglio. Pedalo distratto finché all'improvviso me lo trovo davanti. E mi sorprende, mi coglie alla sprovvista come se si fosse nascosto dietro a un angolo per farmi uno scherzo. Come se non sapessi ch'è lì da prima della guerra.
Inquietante.
Lo trovo inquietante nonostante debba essere ospitale per definizione. Si tratta di una costruzione semplice, compatta, austera, in stile ventennio, col primo piano e il seminterrato intonacati d’un bianco panna ormai sporco, mentre il secondo piano e il sottotetto sono di mattoni rossi, a vista. Le finestre montano imposte di colore verde scuro, sono tutte chiuse. Tutte tranne una sulla facciata, è mezza aperta e sbatte e cigola al vento. Un paio di camini s'arrampicano speculari dai due fianchi fin oltre il tetto dal quale, nel mezzo, spunta una torretta di circa tre metri. Sembra buona solo per ospitare nidi di cicogne e di rondine quella torretta, ché tanto non c'è più nulla da controllare, da tener sott'occhio. Tutto tace. A poche dozzine di metri il fiume scorre lento, infischiandosene. Si sentono solo le chiome degli alberi squassate dal vento e il richiamo di qualche uccello nascosto tra le fronde, i canneti e l'erba alta. La strada che passa di fianco a quell'edificio sembra non degnarsi nemmeno di volgergli uno sguardo. Nascosta com'è da tutto quel fogliame caduto, da tutto quell'autunno. Foglie gialle, rosse e arancioni si mescolano in vortici danzanti: se non fosse per il vento freddo, sembrerebbe di vivere tra i quattro angoli d’una cornice, all'interno di una fotografia scolorita. Una di quelle che ti ricorda i fasti d'un tempo, quando l'occupavano i pontieri che lavoravano lungo le sponde del grande fiume, che allora scorreva appena qualche metro più in là. Dopo di loro, dopo i pontieri del genio civile intendo, ci fu un tentativo di recupero perseverato attraverso qualche decennio, passando di mano in mano e di persona in persona. Tentativi mai troppo convinti. Tentativi spesso abbandonati a sé, se non ostacolati. Di fatto confermati dalla porta d'ingresso chiusa con catena e lucchetto, nonostante il cancello di ferro battuto, che serve per accedere a quella porta sigillata tramite una scaletta, sia stato lasciato aperto. Che sia uno specchio per le allodole per i curiosi come me? Gli scatto una foto, poi risalgo in bici e riprendo a pedalare. Mi lascio alle spalle quell'edificio e quell'ingombrante sentimento d’abbandono e desolazione che l'avvolge ma che allo stesso tempo lo rende a suo modo affascinante.
Si sta alzando la nebbia.
È ora di tornare.

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