Non tutti mi crederanno ma
c'è chi ama l'autunno, come il sottoscritto. E forse saremo anche pochi poveri
diavoli, ma questo non importa. Importa lui, l'autunno: le nebbie, le piogge, i
primi freddi. I suoi colori e i suoi frutti: i mandarini, le arachidi, le
zucche, le castagne, i funghi. E il piacere dei primi cappelletti, quelli che "come
li fa la nonna nessuno". D'autunno mi capita sempre qualcosa da raccontare
o qualcos’altro su cui riflettere. Non so perché ma è puntuale come il Natale.
Era un sabato, la notte
precedente un acquazzone aveva spazzato via le nuvole e pulito l'aria da nebbie
e foschie. E i pomeriggi con un cielo così limpido da poter scorgere gli
Appennini all'orizzonte sono l'ideale per fare uno degli ultimi giri in bici.
Scendo in strada, salgo in sella e filo via, veloce ma senza fretta, prendo il
viale, poi lungo gli argini, pedalo su e giù per la golena. Seguo le ciclabili
senza una meta precisa, perso nelle cuffiette dell'iPod e nei cazzi miei, le
conosco a memoria quelle stradine, come le mie tasche, o addirittura meglio.
Pedalo distratto finché all'improvviso me lo trovo davanti. E mi sorprende, mi
coglie alla sprovvista come se si fosse nascosto dietro a un angolo per farmi
uno scherzo. Come se non sapessi ch'è lì da prima della guerra.
Inquietante.
Lo trovo inquietante nonostante
debba essere ospitale per definizione. Si tratta di una costruzione semplice, compatta,
austera, in stile ventennio, col primo piano e il seminterrato intonacati d’un
bianco panna ormai sporco, mentre il secondo piano e il sottotetto sono di
mattoni rossi, a vista. Le finestre montano imposte di colore verde scuro, sono
tutte chiuse. Tutte tranne una sulla facciata, è mezza aperta e sbatte e cigola
al vento. Un paio di camini s'arrampicano speculari dai due fianchi fin oltre
il tetto dal quale, nel mezzo, spunta una torretta di circa tre metri. Sembra
buona solo per ospitare nidi di cicogne e di rondine quella torretta, ché tanto
non c'è più nulla da controllare, da tener sott'occhio. Tutto tace. A poche
dozzine di metri il fiume scorre lento, infischiandosene. Si sentono solo le
chiome degli alberi squassate dal vento e il richiamo di qualche uccello
nascosto tra le fronde, i canneti e l'erba alta. La strada che passa di fianco
a quell'edificio sembra non degnarsi nemmeno di volgergli uno sguardo. Nascosta
com'è da tutto quel fogliame caduto, da tutto quell'autunno. Foglie gialle,
rosse e arancioni si mescolano in vortici danzanti: se non fosse per il vento
freddo, sembrerebbe di vivere tra i quattro angoli d’una cornice, all'interno
di una fotografia scolorita. Una di quelle che ti ricorda i fasti d'un tempo,
quando l'occupavano i pontieri che lavoravano lungo le sponde del grande fiume,
che allora scorreva appena qualche metro più in là. Dopo di loro, dopo i
pontieri del genio civile intendo, ci fu un tentativo di recupero perseverato
attraverso qualche decennio, passando di mano in mano e di persona in persona.
Tentativi mai troppo convinti. Tentativi spesso abbandonati a sé, se non
ostacolati. Di fatto confermati dalla porta d'ingresso chiusa con catena e lucchetto,
nonostante il cancello di ferro battuto, che serve per accedere a quella porta
sigillata tramite una scaletta, sia stato lasciato aperto. Che sia uno specchio
per le allodole per i curiosi come me? Gli scatto una foto, poi risalgo in bici
e riprendo a pedalare. Mi lascio alle spalle quell'edificio e quell'ingombrante
sentimento d’abbandono e desolazione che l'avvolge ma che allo stesso tempo lo
rende a suo modo affascinante.
Si sta alzando la nebbia.
È ora di tornare.
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