Bruciava bene la brace, a ogni tiro s'accendeva di
rosso come un retronebbia. Però dovevi essere veloce perché sennò ti toccava
riaccenderlo.
Eppure, in mezzo a tutto quel vociare e alla musica,
se tendevi l'orecchio e ascoltavi attentamente, l'avresti sentito crepitare, il
portico, come un camino. Tra tutti quei tiri di paglia, le lampade riscaldanti
e le sciarpe di lana sembrava di stare in un altoforno. E la cosa, alla lunga,
poteva creare un certo fastidio.
La cenere s'allungava, tanto da spezzarsi e caderti
tra i piedi senza nemmeno bisogno di sciccare in un posacenere. Lo sbuffo di
fumo poi andava a confondersi e mescolarsi con la fumana di quei giorni.
Mancava poco a Natale. In quel periodo, se non nevica,
scende una nebbia così fitta da non riuscire a vedere quasi aldilà della
strada. Con questo tempo chi cazzo ci va a Mantova o a Reggio o a Parma? Per
non parlare di Bologna o in un'altra cazzo di città. O in un altro cazzo di
posto qualsiasi. Che solo per andare al bar bisogna guidare con la testa fuori
dal finestrino ché non si vedono le righe ai bordi della carreggiata. E allora
uno pensa che se ne stiano tutti in casa davanti alla televisione, a guardarsi
un bel film sul divano, con la copertina e il pigiama di ciniglia, mentre
s'accarezza il gatto o il cane, magari col caminetto acceso per asciugarsi le
ossa dall'umidità. Macché! Il paese vomita fuori tutti i suoi figliocci
sballati e annoiati. Quelli che il giorno dopo vanno a messa, quelli che escono
con la bamba in tasca, quelli in tiro per andare a figa: tutti comunque si
sarebbero sbronzati. Tutti a riversarsi nei bar ché tanto, con una serata così,
dove cazzo vuoi che si vada?
Non volendo essere da meno, anche noi ci ritrovammo
al bar con la solita compagnia: il Vichingo, il Mezzadro, il Muto e tutti gli
altri. Quella sera, non ricordo perché, forse tanto per cambiare, o
semplicemente per far vedere che ne sapevo, al posto della solita birra, che al
bar sembra piscia, mi finsi "grande intenditore" e mi presi un calice
di vinello. E mentre ero lì a gustarmelo, facendo schioccare la lingua sul
palato dopo ogni piccolo sorso, conobbi ‘sto tizio. Un tizio grosso come un
armadio. Con la barba, e i capelloni. Uno di quelli che però, se lo guardi
bene, ha la faccia da giovane: è ancora uno sbarbo che ci prova, a darsi del
tono intendo. Entrò quindi in scena 'sto radical chic in erba, con la sua banda
al seguito: qualcuno lo conoscevo, qualcun'altro solo di vista, qualcun'altro
ancora sembrava sbucar fuori dal nulla. Salutai un paio dei suoi, così lui mi
guardò e mi notò manco fossi una bella figa. Insomma mi fissava – un’altra cosa
che alla lunga può creare un certo fastidio - e a un tratto mi disse: mi sei simpatico, posso offrirti una canna?
Perbacco!
Poi un altro saltò su: ma tu sei quello del blog?
Signor sì,
sono io in persona.
Uscii allo scoperto e mi pavoneggiai entro i limiti
della decenza. Iniziammo a discorrere.
E 'st'altro incominciò, tra un tiro a l'altro, a
snocciolarmi in serie nomi di chissà chi, forse filosofi tedeschi dell'800 che
per quanto ne so io sarebbero potuti benissimo essere i nomi dei calciatori del
Kaiserslautern campione di Germania '90/'91; poi attaccò a parlare dell'Olanda
e del Giappone. Gli dissi che avevo un cognome olandese. Ci cascò, o fece finta
di cascarci, e in quel caso, allora, ci cascai io alla sua finta d'aver
abboccato alla storia del cognome olandese. Ma ormai rimase solo il filtro a
bruciare, oltre al mio stomaco: maledetto vino. Andai a farmi un paio di birre
da un'altra parte, tanto per sciacquarmi la bocca e le viscere. Ché di cazzate,
quella sera, non ne avevamo ancora sparate abbastanza.
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Perbacco!
Macché!
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