Thursday, April 16, 2015

I pub di Dublino.

Il cielo di Dublino è di un azzurro chiaro, tenue e timido come il sole che va a nascondersi dietro le nuvole grigie che sporcano l'orizzonte. Vanno e vengono portando qualche goccia di pioggia per poi essere di nuovo spazzate da un vento freddo, incessante e tenace. Quel vento che ti fa affondare il viso nella sciarpa e nel giaccone, e ti porta a pensare come cazzo avresti fatto senza cappuccio, con la cervicale che ti dà noia, mentre loro, gli irlandesi, se ne stanno in camicia e a testa alta.
Li riconosci subito, gli irlandesi, e non solo per gli stereotipati capelli rossi e fulgidi, o per la pelle chiara e lentigginosa, le guance paonazze per il vento e le pinte di birra. Ho incontrato persone gentili, cordiali, pacifiche. Ma avevano uno sguardo fiero, orgoglioso, anche da sbronzi. Orgogliosi della loro appartenenza a un popolo che ha passato secoli di sfighe e difficoltà, e in queste si sono riconosciuti e stretti e uniti per riuscire a saltarne fuori, sempre. Tra una birra e un whisky, ovviamente.
A lazy morning, direbbero loro. Alzarsi la mattina con calma. Ci infiliamo nel primo bar che ci ispira per fare colazione. La doppia porta d'ingresso, le vetrate, i tavoli e il balcone di legno massello, le poltrone. Gira un disco con le versioni accoustic di alcune hit pop degli ultimi anni. Si avvicina una ragazza, bionda, sui venticinque, guance butterate, fianchi larghi, vestito nero. Essenziale, semplice, gentile. Ordiniamo bacon, uova, salsicce, fette di pane tostato, sciroppo d'acero, the, succo d'arancia, caffè, giusto per non farci mancare niente. Non lasciamo neanche una briciola. A lei però, la nostra cameriera, lasciamo la mancia. Ci sorride mentre usciamo.
Continuiamo a piedi lungo le vie che costeggiano il Liffey River, il fiume che taglia in due la città. Arriviamo in un parco talmente grande che non ne vedo i confini. Uno scoiattolo con evidenti problemi di peso scorrazza per il prato, faccio in tempo ad avvicinarmi e a scattargli una foto prima che, con sorprendente agilità, torni a rintanarsi sulla cima di un albero. Poco più lontano un ragazzo se ne sta seduto sotto una pianta, un altro lo aiuta a tirarsi su la manica della camicia a quadri, arrotolandogliela bene fin sopra a gomito, stringendo il bicipite. In bocca, tra i denti stringe una siringa, la prende in mano con la sicurezza di chi ha ripetuto quel gesto centinaia di volte, gl'infila l'ago nella vena ingrossata e spinge lo stantuffo. Poco lontano dei ragazzi giocano a pallone, un vecchio porta a spasso il cane, una coppietta si tiene per mano mentre cammina e qualcun altro si rilassa sdraiato sul prato incredibilmente verde del Phoenix Park.
Alzo la mano per chiamare un taxi, si ferma un uomo di mezza età dai classici lineamenti irlandesi e con due grosse mani nodose. Parla un inglese con un accento a noi incomprensibile, ma anche lui è molto gentile e continua a parlarci e a sorriderci con quei quattro denti ingialliti che gli restano. Ci facciamo portare in centro mentre, fuori dal finestrino, Dublino ci scorre davanti agli occhi. Un palazzo moderno in vetro e acciaio da un lato della strada, dall'altro una file di case popolari, quelle caratteristiche alte e strette, coi mattoni rossi in vista. Una chiesetta medievale perfettamente conservata e circondata da un giardino verde mi lascia a bocca aperta appena girato l'angolo. Sullo sfondo la fabbrica della Guinness. Sfilano i palazzi del centro, eleganti ma essenziali, i supermercati, i bar, i fastfood, i negozi di antiquariato, i murales disegnati sulle serrande abbassate. Fine corsa. Paghiamo il vecchio, non vuole la mancia e nemmeno i 10 cents dei 7.10 euro che gli dobbiamo. Le macchine tengono la destra, "devo ricordarmi di fare attenzione ogni volta che attraverso la strada", penso mentre cammino sul marciapiede affollato. Incrocio un vecchio punk, si aiuta con una stampella mentre passeggia indossando il suo giubbino jeans con le maniche strappate, pieno di toppe e spille e l'immancabile scritta "anarchy" sulla schiena, con tanto di A cerchiata. Orgoglioso d'essere rimasto, almeno lui, fedele alla linea. Continuiamo a camminare ancora poco, perché non resistiamo alla tentazione di entrare in un pub, risparmiandoci pure la storiella dell'"ho male ai piedi, sono stanco di camminare".
Dublino ti fa venire voglia di sederti in un pub a berti una birra. Ma anche due, tre, cinque, dieci. Non importa. Perché, se fare un giro per le strade di una città che non conosci può aiutarti a capire qualcosa della sua storia, della sua cultura, delle sue abitudini, a Dublino questo vale anche per i pub. Entrare, sedersi, ordinare una pinta, guardarsi intorno, leggere le targhette commemorative alle pareti. Osservare i quadri e i poster, le facce delle persone, le persone stesse, i baristi e la spillatura delle birre. Accarezzare il legno del bancone, lo stesso in cui può essersi seduto Joice, o Wilde, o Shaw. Ascoltare la musica sempre adatta a ogni situazione e lasciarsi trasportare dall'entusiasmo dei live in acustico che vanno dal british pop al folk irlandese al rock. Ti fanno sentire bene, ti fanno sentire uno di loro. Mi hanno fatto sentire a casa. Brazen Head, il pub più antico della città (1660), il più famoso The Temple Bar che prende il nome dal quartiere Temple Bar, ritrovo di molti artisti di strada, e poi ancora The Norseman, The Badbobs, The Auld Dubliner, l'Oliver st. John Gogarty Pub, The Cobblestone... sono solo alcuni dei pub che abbiamo visitato e che sono riuscito a ricordare, capitemi. Lì respiri la storia, capisci la cultura.

I pub di Dublino sono come dei monumenti, sono il cuore e l'anima della città.

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